Da IL DRAMMA Num. 224 Maggio 1955:
- "La casa di Bernarda Alba" di Garcia Lorca in scena al Piccolo Teatro di Milano
Autore: Vittorio Vecchi
Nelle fotografie: 1) Giusi Raspani Dandolo e Sarah Ferrati 2) Marina Dolfin e Dandolo 3) Valentina Fortunato, Dolfin e Narcisa Bonati.
Al Piccolo Teatro di Milano, la Compagnia stabile del teatro stesso, ha rappresentato il 21 aprile 1955, la tragedia in tre atti di Federico Garcia Lorca:
LA CASA DI BERNARDA ALBA
Distribuzione delle parti: Bernarda Sarah Ferrati - Maria Josefa Teresa Franchini - Angustias Miranda Campa - Maddalena Olga Gherardi - Amelia Narcisa Bonati - Martirio Valentina Fortunato - Adele Marina Dolfin - La Ponzia Giusi Raspani Dandolo - Serva Pina Cei - Prudenza Myriam Pisani - Mendicante Elvira Petru - Prima donna Rina Cucco - Sedonda donna Lina Lanzmann - Terza donna Fiorella Rossi - Ragazza Relda Ridoni. REGIA DI GIORGIO STREHLER
L'ACCUSA DI LORCA
Morì, Garcia Lorca con intrepido viso davanti ad un plotone di esecuzione. Intorno a lui fiammeggiava la Spagna nella convulsione di una guerra che sommoveva letargo di secoli e alzava bandiere di nuove età. Questo Poeta che maturò e soffrì l'arte sua in tempi di così vasto travaglio e, serrato dai due schieramenti nei quali la sua nazione era divisa, si espose ad una consapevole morte, sta un po' a indicare il poeta conscio fino all'eroismo, quale I'hanno esposto questi tempi. Egli prolunga il suo canto, Ia sua altissima voce, la vagante impronta dei suoi personaggi fino alla nostra età, così vicina, così simigliante la sua. Scorgere un itinerario interno nella parabola umana di Garcia Lorca, è riscoprire tracce più profonde in quel percorso per il quale I'arte e Ia vita sua, vicendevolmente si alimentarono e si completarono fino ad assumere ia suprema definizione della univoca creazione che si esprime nella morte. Se Garcia Lorca è poeta di gridi, se rapisce immagini con furia esaltatrice, se ha dolcezze che si estinguono nel pianto, ciò lo possiamo pensare il momento ultimo solitario della sua poesia; quello nel quale si contende con il mondo di fantasia che si è creato. Prima di arrivarvi, però, c'è da capire che Egli ha vissuto, con proprio orgoglio, la crisi della sua età, che ha sensibilizzato per infiniti rami, giungendo a mitizzare una propria randagia e violenta storia che sta a recupero dell'eroismo, della libertà. Vigila quasi Egli con un celeste sguardo una Spagna di una reale leggenda, mentre alterna una dolente invocazione ad una esaltata visione. Garcia Lorca, che lascia l'Università e va in giro per borghi e paesi in compagnia di marionette e di fideisti amici a dare rappresentazioni, adunando gente allo spettacolo, è qualcosa di più che un aneddoto o un motivo di ricerca teatrale: è un inestinguibile bisogno di specchiarsi nel popolo e ricevere di riverbero una immagine nella quale riconoscersi. L'opera teatrale tutta del Poeta è questo scrutare elementi dai quali nessuno aveva più attinto, scoraggiarsene e ricrederli fino al limite della poesia. Chissà perché lo pensiamo attendato in notti andaluse - conosciamo il cielo dell'Andalusia, un cielo che ha precipitazioni di astri di sgomentanti parabole - circonfuso di suggestioni che vogliono tradursi in probabili vite. I fuggitivi di Nozze di sangue, la dolente sitibonda Yerma, I'equivoco amoroso della Zapatera prodigiosa, il Don Pirlimplin e Donna Rosita nubile, sorgono da quelle soste e da quei pensamenti. Spagna senza festa, con una natura vergine che nessuno può scoprire, il tuo ultimo grande Poeta ti ha recuperato a noi con palpito di inestinguibile dolore, di consolante meraviglia. E parlare di teatro prima di avere penetrato tutto questo è non raggiungere I'orbita nella quale il teatro sorge dall'alone dei suoi creatori. La casa di Bernarda Alba è l'ultima opera di Garcia Lorca. Pochi mesi dopo fu fucilato (e chi lo fucilò, nasconde ancora per la vergogna le mani). Dice il Poeta in una polemica indicazione "questo è un documento fotografico". Noi non ci lasceremo traviare dalla indicazione. Accettare per verismo l'ultimo cilicio che ha assunto Lorca per toccare più da vicino la triste realtà del suo popolo, col quale egli così ansiosamente si confondeva, è fraintendimento. Vera, fotografica, se si può dire, è solo la protesta, la indignazione di Garcia per questa Spagna asserragliata nel suo medioevale "castismo", mostruosa nei rapporti umani che ne derivano, bruciata da epiche ambizioni, il cui dolore lo si legge nelle assetate crepe che sl slabbrano il suo terreno. La casa di Bernarda Alba è l'accusa ad un costume, ad una innaturale segregazione, alla follia di un popolo che ricorda in questo modo di essere andato alle Crociate e di avere combattuto gli arabi. Indica la litania medioevale di generazioni la cui residua libertà è quella che si ritrova nella vicendevole persecuzione, nella dispotica oppressione e nella esplosiva e vana protesta. La verità fotografica de La casa di Bernarda Alba è qui, nel perimetro di quei vani che escludono ogni altra vita che non sia l'insana suggestione che offre un uomo, collocato all'orizzonte, a sguardi cupidi di donne murate. Altra verità sappiamo che fuori sobbolliva: la casa spagnola e chi la abita non l'ha accolta né ad essa ha spalancato Ie porte. L'imperio della madre che, al lutto per la morte del capo della casa, fa corrispondere una segregazione di anni per sé e per le figlie, è il punto su cui il poeta poggia l'esecrazione di un arbitro davanti al quale la natura non trova che una tragica rivolta. L'atteggiamento delle giovani è la giovanile variante che nulla potrà davanti a questo inumano assolutismo. Nel recinto di quella casa tutto deve essere consumato e celato: il peccato, il giudizio di esso, la condanna per barbarici modi. Tutto garantisce la perpetuità di quel mondo davanti al quale sgomenti ci si ritrae. L'affannata sfilata dove superstizione e pietà hanno lo stesso viso, è la interrogante ansia del poeta per raggiungere, afferrare altro al di fuori di tale cupo mondo. Garcia dà voce al dolore. Questo è poema che evoca secoli trascorsi, eppure è ambientato, è del nostro tempo. Giorgio Strehler si è trovato davanti a arduo compito. C'erano due vie di scelta: o sottolineare la classica nudità dell'opera, fissarla in un'assurda ipotesi alla quale il circostante mondo si ribella o affrontarla come dramma a se stante con gli appigli, e snodature che lo stesso testo offre. Strehler regista composito, anche se composito per vivi ingredienti, si è attenuto al secondo modo e questa regìa è discontinua, non attinge al nucleo dell'opera, ne è la genialoide variazione. Tutte quelle che sono le costanti, diremo così, espressionistiche del modo di inscenare di Srehler sono venute fuori per un dramma che ha una nudità classica. Gli squarci della madre di Bernarda Alba che sorge, come da un pozzo, a proporre la sua non vissuta vita, si sono offerti, soprattutto al finale del primo atto, come pretesti esornativi; e i silenzi e le pause non fanno la misteriosità degli eventi che dentro casa si svolgono. La materia si è un po' ingarbugliata e viene facile il confronto con I'edizione della stessa opera dataci da Vito Pandolfi il quale, con spietata conseguenza, senza indulgere a nulla, giunse con la sua regìa alla fermezza del bassorilievo. Siamo qui a riconoscere che i felici tratti non mancano le sorprendenti soluzioni anche. Manca però la interezza, I'unità della regìa. Una corrispondente accettazione della moderna classicità dell'opera. Sarah Ferrati attrice di impeti, di fervori e anche di precisi moduli drammatici ci è parsa una fiancheggiatrice nella parte della protagonista. Così I'abbiamo vista, anziché trovarcela calata dentro a esprimere la mostruosa personalità di Bernarda. Un vizio, questo, riflesso un po' in tutti gli attori, ben celato da una indubbia e generale bravura. Accomuniamo nell'elogio e nella segnalazione, che hanno quesu limiti, Teresa Franchini (che ha dato però alla scena della pecora sconcertante svagatura), Narcisa Bonati, Marisa Dolfin, Giusi Raspani Dandolo (che forse, paurosa dei suoi molti estri, qui ci è parsa monotona), Vaientina Fortunato, Pina Cei. Appropriata soprattutto la scena del terzo atto di Damiani, meno quella del primo e secondo. Un successone.
Vittorio Vecchi