Da SIPARIO Num. 236 Dicembre 1965:
- IL MESTIERE DELL'ATTORE: La necessità del rapporto attore-autore
Autore: Dario Fo
IL MESTIERE DELL'ATTORE
Dario Fo - La necessità del rapporto attore-autore
lo sono molto legato all'esperienza del mimo: cioè all'uso del gesto come significazione di un discorso e come trasmissione d'azione. Il gesto mimico non soltanto fa a meno della parola ma determina una serie di situazioni: voglio dire che il risultato del gesto mimico è dato soprattutto dal modo storico con cui se ne fa uso. Si può fare a meno della parola perché si considera Ia parola insufficiente a esprimersi, o perché si considera la parola troppo eloquente e retorica; e in ambedue i casi il rifiuto di essa è dato da un atteggiamento letterario o umano, da un comportamento che si determina fuori della scena in altre parole. ll gesto mimico invece è per cosi dire dentro la scena da sempre: risale a tradizioni antichissime, si rinnova nelle generazioni, permette di essere contemporaneamente con il passato e con i nostri giorni, amplifica prodigiosamente il discorso sul palcoscenico mantenendosi sempre sul piano di esperienze tecniche e proiettandosi contemporaneamente nel pubblico senza ritrazioni verbali o di luce o di atmosfere. Chi ricorda ll dito nell'occhio, sa in che modo a me e ai miei amici piaceva far uso del mimo: anzitutto come gusto stilistico per se stesso, produttore di comicità mediante ritmi geometrici apparentemente astratti ma completi; e poi come applicazione di tale fredda geometria di gesti a fatti e avvenimenti della realtà di tutti quanti, della vita come ci accade ora per ora. Lo choc è stato davvero grande se ancora oggi se ne parla con una certa nostalgia e con una certa positività: del resto a noi pareva di aver proprio messo 'il dito nell'occhio', nel senso di essere in grado di importunare lo spettatore beneficamente su problemi che lo angustiavano, mediante una successione di azioni mimiche che gliene attutissero I'urto. Anche oggi, nei miei spettacoli, per chi sa ben vedere, c'è una cura attentissima, direi essenziale, alI'uso del gesto mimico come strumento espressivo: io penso tuttavia che esso va calato storicamente, come dicevo poc'anzi, nel senso che esso può avere il massimo di significati di fronte al pubblico quanto meno gode della sua matematica precisione, del suo perfetto svolgimento. È allora che anch'io, come attore, anche i miei colleghi, non soltanto subiamo il gran divertimento che tali esercizi comportano per se stessi nel momento in cui Ii si esegue e il corpo vi si modella e l'animo se ne compiace; ma anche abbiamo la sensazione, per non dire Ia consapevolezza, che si tratta di esercizi non formalistici in quanto calati in certe esperienze della vita umana, di ieri e di oggi, come sono i temi degli ultimi miei lavori. Chi non si accorge, in questi spettacoli, dell'importanza che ha l'azione mimica, perde Ia metà almeno di quanto ci si è imposti di dire al pubblico con il mio lavoro; come non c'è di peggio, in certe osservazioni di critici, che sentirmi accusare di non aver adoperato materiali appropriati, che so, costumi approssimativi, o scene inesatte, quando è vero che sono capace di perdere settimane per rintracciare i colori e il taglio di certi costumi; e siccome ho esperienza diretta di scenografia, mi studio lo spazio in scena assai minuziosamente, e mi accorgo all'istante di qualsiasi diffrazione di visualità, e so che cosa mi aspetto da una certa disposizione di oggetti e di persone e da una certa successione di movimenti, e anche cosa il pubblico noterà o sentirà immediatamente di fronte a questo mio spazio teatrale creato dapprima sulla carta e messo in vita in tante prove e alfine portato a conoscenza e sensibilità dello spettatore. Quando mi si dice che l'attore in questi ultimi anni, dopo un felice e per me indispensabile connubio di lavoro e di esperlenze e di risultati con il regista, comincia a sentire una maggiore sua responsabilità non soltanto come interprete di un personaggio, del suo personaggio, ma anche dei personaggi che ruotano attorno al suo, e dei colleghi che li rappresentano, per quel che mi riguarda posso dire che si tratta di una assoluta scrupolosità nel cercare un'unità interpretativa di un testo, cominciando appunto dalla ricerca dello spazio teatrale in cui oggetti e persone e abbigliamento e luci abbiano una resistenza all'impressione prima dello spettatore, proprio per la loro essenzialità e per la loro veridicità al tempo stesso, per la loro stilizzazione in chiave umana e tecnica se è lecito una simile espressione. Direi anche di più: I'attore, parlo sempre di esperienze personali, può influire anche sul testo, collaborando attivamente alla sua realizzazione scenica, e non soltanto mediante le sue specifiche qualità di interprete, cioè con la sua educazione artistica e con il suo temperamento personale, ma anche lavorando, direttamente o meno con l'autore stesso del testo, in fase di lavoro sotto il profilo o di ripensamento critico o di suggerimento normale. Non voglio qui ricordare gli infiniti esempi di collaborazione tra attore e autore nella storia del teatro: sia quando l'attore inventava pressoché tutto, sia quando I'autore scriveva espressamente per un attore, sia infine in tutte le occasioni in cui il rapporto tra attore e autore è stato strettissimo al punto da provocare diverse stesure di uno stesso testo. La storia del teatro è a disposizione di tutti per sincerarsi di quanto dico: ebbene io guardo con nostalgia e con simpatia questa vicinanza tra attore e autore, che si è perduta negli ultimi decenni. E forse una delle ragioni per cui oggi un certo abuso della regia è venuto a galla è derivato propriamente dall'esclusione fisica e morale dell'autore sulla scena, come cooperatore della realizzazione di uno spettacolo, del suo testo in definitiva; e contemporaneamente dell'isolamento, anche privilegiato, dell'attore, nei confronti dell'autore del testo, essendo quest'ultimo Iegato mani e piedi, e spesso per sua fortuna, al regista, che se ne fa responsabile totalmente, di fronte agli stessi attori. Del resto io penso e sono sicuro che uno Strehler, uno Squarzina, un Dé Bosio, per citar qualche nome, più volte saranno costretti a rifiutare un'opera perché non hanno tra le mani quell'attore o quegli attori che a loro parere potrebbero salvaguardarne l'unità e il livello: dovendo anzitutto operare su materiale umano, con determinate strutture mentali e con determinati segni di fisionomia, come è appunto l'attore, al quale, al momento del levar del sipario compete in definitiva il diretto scontro con il pubblico e quindi la maggiore responsabilità della trascrizione dell'opera come spettacolo. Come si vede lo scontro tra attore e regista, se lo si esamina, si allarga a scontro tra attore, autore e regista; né dovrei parlare in questo caso di me, abituatomi, non so con quali risultati - ma di questo il giudizio spetta agli altri - a operare sulla scena anche in veste di autore. E proprio perché sono anche autore sento che debbo lavorare specificatamente in funzione dell'attore che sono io e dell'attrice con la quale lavoro e degli altri attori che sono miei collaboratori; e allora sono parecchie le occasioni in cui strumentalmente sono costretto a tagliare o ampliare o a rifare sulla base del materiale umano che in quel momento è a mia disposizione. Ma ciò è già andare forse fuori tema: e però in discussioni così delicate quale può essere l'importanza dell'attore oggi, andare fuori tema, è già affrontare il problema, credo, non superficialmente, essendo parecchi i motivi e tutti concomitanti, tutti complementari per i quali nella situazione del teatro italiano, adesso se ne comincia a parlare e a discutere.
DARIO FO