Da SIPARIO N. 247 Novembre 1966:
- Eduardo e Zeffirelli: Un grido d'allarme per il teatro libero (parte I)
- Autore: Eduardo De Filippo - Franco Zeffirelli
Eduardo e Zeffirelli a colloquio: UN GRIDO D'ALLARME PER IL TEATRO LIBERO
SIPARIO - Come sapete la nostra rivista ha da qualche tempo intrapreso un'analisi quanto più metodica e approfondita possibile sulla situazione del teatro in ltalia sia come fenomeno in sé, sia in relazione alle altre espressioni artistiche con partìcolare riferimento a quelle letterarie. Questo tipo di operazione ci sembra tanto più necessario in questo particolare momento in cui il teatro italiano sta vivendo, in bene e in male, una crisi di adeguamento dalla quale uscirà, con ogni probabilità, Ia sua fisionomia nei prossimi anni. È inutile ora ripetere o riassumere quali sono gli elementi sia positivi che negativi di questa fase che conosciamo benissimo sia noi che i lettori di Sipario. Vorremmo piuttosto che in questo colloquio tra il maggior drammaturgo italiano contemporaneo e uno dei nostri registi più abili, controversi, stimolanti e polemici, venissero approfonditi alcuni punti specifici che a noi stanno a cuore e che voi avete di recente toccato, anche se di sfuggita, in alcune dichiarazioni rilasciate a un quotidiano milanese. Più che delle domande proporremo pertanto quattro temi o argomenti di discussione (che poi come vedrete sono strettamente collegati I'uno all'altro) invitandovi a dibatterli con la maggiore ampiezza e franchezza possibili dal momento che siamo tutti convinti, credo, che tra le tante cose di cui il nostro teatro ha bisogno c'è anche I'esigenza autentica che di certe cose si cominci a parlare fuori dagli schemi e dalle convenzioni che ci hanno così a lungo annoiato. ll primo tema riguarda il repertorio. A parte sporadiche eccezioni che, come direbbero gli statistici, "non fanno campione", non c'è stata in ltalia in questo dopoguerra una produzione drammatica che stesse alla pari non tanto con quella inglese o con quella tedesca nuovissima, ma neanche con altri casi, isolati ma significativi, avutisi in altri paesi europei. Vorremmo la vostra opinione su questo fenomeno con una appendice sugli incentivi legali che sono stati e sono in atto per stimolare, con una specie di protezionismo doganale, la produzione nazionale.
ZEFFIRELLI - lo non credo che il problema della mancanza di autori in ltalia dipenda dall'amministrazione o dalle condizioni degli ultimi decenni; la questione è molto più vasta, molto più antica. Credo che I'ltalia abbia avuto solamente due tradizioni teatrali: quella napoletana e soprattutto quella veneta. Come campione di teatro in lingua italiana non abbiamo avuto altro che Pirandello. L'ltalia nell'800 ha avuto, ahimé o fortunatamente,il modo di esprimersi nel teatro attraverso il melodramma, che per un 130 anni ha assorbito tutte le energie drammatiche che potevano andare nel teatro normale. E recentemente, quando abbiamo ripreso una coscienza culturale nazionale, lo spettacolo si è identificato col cinema: tutte le energie che potevano essere convogliate nel teatro sono passate al cinema. Ecco i due grandi generi nei quali si è espresso il talento dìciamo drammaturgico degli italiani. Non perché Eduardo è qui, ma suoi sono gli unici testi degli ultimi anni che si potrebbero rappresentare all'estero, verifica che denota immediatamente la validità di un autore: Pirandello traduce; Patroni Griffi non traduce; Fabbri traducicchia, in francese; Betti ha traducchiato in altre lingue; Eduardo potrebbe benissimo tradurre, non l'ha fatto lui perché è un uomo che non si dà da fare: ma Filumena Marturano e ll sindaco del rione Sanità sono commedie a livello internazionale. Ouindi è un problema di lingua. Goldoni, bene o male traduce. Tolti questi casi noi non abbiamo altro da offrire al teatro lnternazionale. Mentre i grandi autori contemporanei o anche passati di lingua inglese o di lingua francese si possono tradurre benissimo in italiano. E' un po' un problema generale, di cui non si può accusare nessuno. Non si può accusare la società italiana di oggi, perché a un certo momento la società napoletana ha suggerito dei capolavori; il teatro è veramente un modo di esprimersi che non è andato con la nostra cultura nazionale. Anche l'ipocrisia degli italiani, il non avere il coraggio d'affrontare i propri problemi, il perbenismo, il "facciamo brutta figura o bella figura", cioè il provincialismo culturale di gran parte della società italiana, ha portato a non aprirsi verso il teatro. Cosa che invece si è fatto col cinema. Nel cinema abbiamo avuto il coraggio di dire fin troppo, di esporre i nostri problemi, in teatro no; anche perché è difficile scrivere per il teatro, mentre in cinema uno pasticcia sempre: se la sceneggiatura è brutta il regista la mette a posto, poi col doppiaggio, il missaggio, le musiche, un autore è meno esposto. Ma nel teatro è la parola, dal principio alla fine, che conta. Quindi hanno molta paura. lo ho parlato con molti autori, anche illustri, romanzieri, ecc. hanno il terrore di fare il teatro, perché è un impegno grosso. Questa è la mia diagnosi; naturalmente Eduardo avrà tutta un'altra teoria. EDUARDO - Il punto di vista che ho avuto sempre io e fin da trent'anni fa, quando ho cominciato a svecchiare il teatro italiano, è che non bisognava perdere di vista i quattro filoni del teatro dialettale italiano e mi riferisco a quello veneto, quello napoletano, quello toscano (che Zeffirelli ha dimenticato di menzionare) e quello siciliano. Per vent'anni questi quattro filoni hanno segnato il passo, meno il napoletano perché io non me ne sono dato per inteso e sono andato avanti per conto mio. Hanno segnato il passo non solo per vent'anni - il ventennio fascista - ma anche per i vent'anni che hanno seguito e in cui tutto è rimasto come prima. Vogliamo trovare una ragione a questo? Ma proprio perché è stata data una comodità a tutti, sia agli attori che agli autori, di poter scrivere e farsi rappresentare essendo sovvenzionati, essendo pagati, con integrazioni sul foglio paga, con milioni all'inizio dell'anno comico, addirittura con premi che non vanno dalla medaglina d'oro, alla targa o al diploma, ma di venti, trenta milioni, che a un certo punto possono dare il benessere a una compagnia. E sul benessere non è nato mai niente. Ouella che vale è la competizione, è il far meglio, per non dire una parola ovvia, è soffrire per il teatro, come noi per anniabbiamo sofferto. lo non voglio invitare gli attori, gli autori, a soffrire, ma a prendere una coscienza di questo. Noi non abbiamo niente - io penso - contro i teatri stabili: che vivano, che stiano in santa pace, che prosperino; ma vogliamo il nostro teatro. ll teatro, che - posso dirlo - ho tenuto in piedi io per trent'anni, da solo, tirandomi addosso polemiche e concezioni magari sbagliate, che mi hanno reso la vita difficile in certi momenti; ma sicuro, certo, di quello che facevo. ln un'ltalia, unita appena da sessant'anni, con popoli divisi da repubbliche, il teatro in quell'epoca era disordinato e fatto da maschere, fatto dal teatro dell'arte. Abbiamo avuto delle voci a Firenze; abbiamo avuto delle voci a Napoli, che già all'epoca di Petito si adeguava alla riforma di Goldoni; un segno di vitalità, di progresso. Abbiamo avuto i toscani fino alla Garibaldi-Niccoli e Novelli: dei testi egregi, che non dobbiamo dimenticare. Abbiamo avuto i siciliani. I veneti che si sono battuti fino all'inizio del fascismo con Gino Rocca, un autore che ha scritto delle egrege commedie e avrebbe continuato se non glielo avessero proibito di scrivere in dialetto. A questo momento io non difendo il dialetto, il vero nemico del dialetto sono io. lo dal dialetto voglio un teatro nazionale, ma non Io voglio io, lo voglio tramandare, lo voglio seminare, perché non si può seminare e raccogliere. ln quarant'anni noi avremmo seminato e oggi forse avremmo un teatro nazionale se i quattro filoni fossero stati portati a termine, da un insieme, da un accordo, non da un disaccordo; disgraziatamente noi qui in ltalia siamo sempre in disaccordo e ognuno agisce e va per conto suo. Oggì credo che si possa fare ancora qualche cosa. Anzi questa conversazione ci porterà certamente a riscattare quel tanto che noi abbiamo perduto fino adesso se troviamo un accordo, se ci mettiamo insieme a difendere quello che è il nostro patrimonio e che noi abbiamo difeso fino a oggi; io in un campo, tu in un altro, forse nello stesso campo, ma difendendolo e pagando di persona quando si sbaglia, perché solo quando si paga di persona si può migliorare il prodotto e andare avanti.
SIPARIO - Avevamo limitato la questione a questi ultimi vent'anni; tutti e due siete ritornati indietro ovviamente perché i fenomeni non si possono mai tagliare con le forbici e isolare nel tempo cosi nettamente. La domanda si riferiva in particolare al dopoguerra per una ragione strumentale che nel dopoguerra vi sono state condizioni di maggiore facilità (forse troppa, come dice Eduardo), di maggiore libertà sicuramente rispetto ai vent'anni precedenti; e tuttavia non è servito a niente. Non solo: nel dopoguerra si è cercato - questo veramente in analogia a quanto era stato fatto prima - di mettere in atto una specie di protezionismo per incoraggiare con le facilitazioni degli incentivi amministrativi una produzione nazionale che i fatti hanno dimostrato inutile.
ZEFFIRELLI - Ma quello è sbagliato. Come il fascismo aveva protetto la cinematografia nazionale e ha portato alla creazione di orrori. Quello che rende vivo, vitale, qualunque tipo di arte è la competizione, specialmente nel mondo dello spettacolo dove si fornisce una merce che va comprata. A un certo momento tu hai bisogno dell'acquirente, devi fornire qualcosa che il pubblico seralmente ti viene a comprare. Il pubblico non viene perché il governo preferisce che lui veda una cosa piuttosto che un'altra; viene di libera elezione; compera i cappelli se ne ha bisogno. Come se il governo decidesse che gli italiani debbano comprare per lorza i cappelli italiani; non interessa: loro comprano il loden inglese se gli fa piacere comprarlo. La competizione stimola la creatività, come in tutti, anche nei grandi movimenti politici. La democrazia è ancora un sistema imbattuto perché stimola la produttività di un paese; I'economia fiorisce piuttosto sotto il regime democratico che in un regime totalitario, perché nel regime totalitario manca la competizione. lnfatti anche I'Unione Sovietica mi sembra che si stia avviando a poco a poco per incrementare la propria produttività verso una liberalizzazione non solo delle iniziative economÌche ma anche di quelle culturali. Soltanto dalla competizione viene secondo me un incentivo a migliorare. E in teatro il vantaggio viene dal fatto che tu offri un prodotto migliore di un altro, più interessante di un altro. Tutto nasce da li. Certo se il governo decide che gli autori italiani debbono essere favoriti, fa un grave torto agli autori italiani, che devono combattere le loro battaglie da soli col proprio talento e le proprie opere. Se un'opera italiana si dimostra al pubblico più interessante di un'opera inglese o americana, la gente andrà a vederla. EDUARDO - lo sono d'accordo perfettamente con Franco: il buon prodotto si va a scovarlo ovunque. È I'imposizione che non dico il pubblico italiano, ma che tutti i popoli non subiscono. Noi abbiamo fatto una resistenza passiva al fascismo per vent'anni, figuriamoci se non la facciamo al teatro. ZEFFIRELLI - Un'accusa alla quale io mi ribello è di tacciare il pubblico italiano di snobismo perché preferisce il repertorio straniero a quello italiano. Non è vero niente. Il pubblico preferisce una commedia di Albee o di Osborne a una commedia di un autore italiano qualunque; ma quando vien fuori un Brusati che per esempio ha proposto I'anno scorso Pietà di novembre oppure se tirano fuori la commedia di Brancati, la gente va a vederla. Eduardo, qui presente, ha sempre avuto i teatri pieni, perché Ia gente ama il suo teatro, ama le cose che lui gli propone. EDUARDO - Si, ma veramente quanto a questo hanno sempre detto che i teatri erano pieni perché le commedie le recitavo io. Per un certo periodo mi avevano pure convinto, perché io sono un poco vulnerabile, di questa affermazione; e calcolavo le mie commedie un fatto personale che poteva reggere solamente con Ia mia interpretazione. Ma tredici-quattordici anni fa, quando sono cominciate Ie traduzioni all'estero allora io mi sono ribellato e mi sono amareggiato molto contro costoro che sbandieravano questo fatto. ZEFFIRELLI - Filumena Marturano in Russia, per dire un caso, è stata rappresentata in Russia a un certo momento da 34 teatri simultaneamente, se non sbagliano le mie informazioni. EDUARDO - Come no? E Mia famiglia lo stesso, è stata recitata in Russia da non so quante compagnie, adesso mi sfugge persino il numero. De pretore Vincenzo è da sei anni ìn repertorio in Russia in tutte le repubbliche e sono 40-50 compagnie che lo recitano. Adesso recitano L'arte della commedia che io non ho portato a Roma perché ho avuto un'iradiddio di critiche contrarie, specie a Napoli; addirittura il prefetto voleva trovare un punto dove attaccarmi per vilipendio, soltanto perché io avevo detto delle verità sul teatro, sul mancato funzionamento del teatro che può attribuirsi non a malafede, ma probabilmente a incapacità. ll teatro è manovrato in ltalia, tranne delle occezioni, da incompetenti. Questo io non lo dico soltanto adesso; ma I'ho detto e scritto con lettere raccomandate alle quali non è seguita nessuna risposta. L'ho scritto al sindaco di Napoli sei anni fa; I'ho scritto a Folchi che era ministro, con una relazione sul piccolo Teatro di Napoli, quando pensavano di affidarmelo e poi hanno cercato di estromettermi, perché la mia presenza poteva dare fastidio, molto, agli incapaci. Di queste relazioni ho tutta una documentazione precisa: io feci una diagnosi perfetta di quelli che erano stati gli otto anni di attività del piccolo Teatro di Napoli; questa relazione la inviai allora al Sindaco di Napoli Ferdinando Clementi, al sottosegretario allo spettacolo che allora era Ariosto e a De Biase; e da tutti e tre io non ho avuto una risposta.
SIPARIO - Prima Eduardo accennava ai rapporti città, teatri stabili, e questo era appunto il secondo teme di conversazione: i rapporti tra i teatri stabili e le compagnie. Quando nacque a Milano il Piccolo sicuramente fu segnata una svolta nel teatro italiano. È fuori di dubbio però che in questi ultimi tempi i teatri pubblici tranno dato segno di un certo allentamento nello slancio e di non poca confusione nelle scelte. A cosa attribuite questa nuova situazione, anche in relazione alla funzione assunta dalle compagnie di giro, e a cosa attribuite I'insuccesso indiscutibile dei teatri stabili nella creazione di una drammaturgia nazionale?
ZEFFIRELLI - Per la responsabilità riguardo al fallimento nella creazione di una drammaturgia nazionale spezzo una lancia a favore dei teatri stabili. Mi sembra che anche loro subiscano le stesse difficoltà che ha il teatro in generale: non si può imputare a loro questa incapacità di stimolare Ia creatività degli autori, anche perché secondo me gli autori devono scrivere da professionisti, cioè da venditori di un prodotto, e secondo me i teatri stabili possono probabilmente solleticare l'orgoglio e I'ambizione di un autore, però gli autori in sostanzà scrivono solamente se possono vendere il loro prodotto, come un romanziere scrive per vendere i propri libri. Ora chi glielo vende meglio sono Ie compagnie commerciali: ecco I'unica ragione per cui neanche i teatri stabili hanno avuto questa capacità di stimolare un teatro nazionale. EDUARDO - L'avrebbero questa capacità, perché sono certamente degli uomini di teatro; ma non dobbiamo dimenticare che un teatro stabile non è autonomo; non può decidere un programma, ma si deve valere di una commissione. Per fare un esempio cinque anni fa mi telefonò Paolo Grassi per il Piccolo Teatro di Milano, dicendomi che aveva intenzione di mettere in scena De Pretore Vincenzo e Ia regia I'avrebbe fatta Strehler; questo mi faceva molto piacere perché Strehler è un regisia che io stimo moltissimo; la commedia fu messa pure in cartellone e poi fu tolta. Sapete bene quale è stata la vita e I'inizio di De Pretore Vincenzo; si chiuse il Teatro dei Servi per De Pretore Vincenzo; dopo quattro rappresentazioni a teatri esauriti, la polizia alle porte del teatro cacciò via il pubblico per il bavero; e non furono espresse ragioni, il motivo non si è mai saputo. Io devo pensare che lo stesso motivo per cui fu eliminata Ia commedia da Roma esercitò la stessa funzione pure a Milano. ZEFFIRELLI - C'è il caso recente di un autore nostro tra i più qualificati che ha un testo che gli era stato richiesto da un teatro stabile e ha fatto esplorazioni con noi per offrirlo alla nostra compagnia di giro, perché ha molti più vantaggi a farlo rappresentare a un pubblico vasto e commerciale che non da un teatro stabile che glielo rappresenta ogni tanto e a un livello poi... ln pratica la somma che lui alla fine dello sfruttamento di un testo riceve da un teatro stabile è infinitamente inferiore a quella che riceve da una compagnia di giro. Ouindi i teatri stabili hanno questa difficoltà, oltre, come diceva giustamente Eduardo, alla difficoltà della scelta politica, perché bene o male sono tutti condizionati a una alchimia politica per cui i testi sono l'espressione, non dico di un intrallazzo, ma di una contrattazione tra le varie forze politiche al potere in quel particolare teatro stabile. EDUARDO - lo credo che quel che abbiamo detto fino adesso sia sufficiente a stabilire il fatto che un teatro, un vero teatro. qui non può nascere se non attraverso una ribellione: quella che ho esercitato io da trent'anni fa fino a oggi malgrado le controversie, in grazie proprio alla possibilità di poter rappresentare me stesso attraverso I'interprete. Altrimenti in ltalia non mi avrebbe rappresentato nessuno: se io non avessi avuto la possibilità di interpretare le mie commedie, il pubblico italiano non le conoscerebbe. Non mi sarei fermato, avendo questa natura di fantasioso, questa natura di uomo di teatro che vuole scrivere, e a un certo punto me ne sarei andato all'estero. Ma avendo le possibilità di poterle recitare da me e sollecitando in quell'epoca gli appetiti degli impresari che avevano i teatri esauriti, lottavano essi per me, per avermi nei teatri. E poi mi limitavano le stagioni a venti, a dieci, a quindici giorni, non mi davano più due mesi di contratto a Roma perché si ribellavano le altre compagnie e andavano a ricorrere dal Direttore dello Spettacolo De Pirro. E De Pirro riceveva pure lettere di sollecitazione da parte di autori, che gli chiedevano perché sosteneva un teatro dialettale fino a farlo recitare per due tre mesi al Teatro Ouirino. Quindi De Pirro stesso, mi chiamava e mi diceva: "Abbi pazienza, per quest'anno fatti un giro di quaranta, cinquanta recite. Ti prego non farmi avere grane, perché vedi ho un cumulo di lettere contro questo fatto che tu permani troppo tempo a Roma, a teatri esauriti." Sicché il teatro che più in quel momento il pubblico amava, praticamente glielo vietavano. ZEFFIRELLI - ln sostanza, per tornare al punto preciso. C'è una cosa che si chiama teatro: un'attività teatrale, di compagnie, di produttori, di impresari che decidono di mettere su un testo perché intuiscono nel testo delle possibilità commerciali, di gradimento da parte del pubbllco compratore; teatro che occupa il 95% dell'attività teatrale in un paese civile. Poi esistono dei complessi che per caratteristiche sociali, culturall, offrono vantaggi immensi per la continuità del lavoro, avendo una sede, un direttore stabile, un gruppo di attori fisso: i teatri stabili. E questa è la forza del Piccolo Teatro di Milano e dei molti altri complessi degnissimi che fanno parte dell'attività del teatro di cultura in un paese. Come in lnghilterra ci sono circa una ventina di iniziative che il governo finanzia e incoraggia a parte, come il National Theatre, I'Aldwich, il Bristol Old Vic, eccetera. Anche in ltalia va stabilito che esiste prima di tutto un teatro dove tutti noi lavoriamo: quello che ha creato il famoso boom recente, col pubblico che è tornato ad affollare le sale. EDUARDO - Precisamente. ZEFFIRELLI - E poi il governo ha il dovere di incoraggiare, di finanziare separatamente dall'attività teatrale nazionale delle inizlative come i teatri stabili; i quali, per questo, hanno poi il dovere di fare un certo tipo di repertorio, un certo tipo di attività, di politica di prezzi, di attrarre nuovi strati sociali agli spettacoli, ecc. Ma non vanno assolutamente mischiati i due modi di fare il teatro. Teatro è soltanto una cosa: quella che diciamo e che facciamo noi; l'attività culturale nella quale si inserisce l'attività dei teatri stabili è un'altra. Noi parliamo in nome del teatro. Non c'è altro, non c'è che quello, il resto è una cosa a parte, che il Ministero dello Spettacolo deve incoraggiare con fondi a parte. È quello che vogliamo stabilire, perché c'è una gran confusione anche nella mente del pubblico, siccome quelli che parlano sono solamente i teatri stabili che hanno degli insigni e loquaci rappresentanti i quali - data Ia nostra passività, la nostra buona natura - riescono ad avere accesso alle grandi decisioni nel panorama del teatro italiano ad alto Iivello e a parlare a nome del teatro italiano. Loro non devono parlare a nome del teatro italiano, ma a nome di un certo tipo di attività. A nome del teatro italiano devono parlare solamente quelli che lo fanno, rischiando del proprio e parlando direttamente col pubblico, in un dialogo - diciamolo pure - commerciale. Noi vogliamo vendere un prodotto che il pubblico deve comprare. Questo può essere volgare nella sua schematizzazione però contiene il germe di tutta la vitalità del teatro. Perché se il pubblico non compra un prodotto c'è qualcosa di sbagliato. La prossima volta che tu fai un altro spettacolo tieni conto del fallimento o del successo precedente. So già che qualcuno dirà che questa è la maniera di ridurre il teatro a una impresa puramente commerciale, ma è vero e io preferisco quello alla sterilizzazione pseudoculturale. Tanto siamo tutti comunque alla caccia di testi commerciali. Tutti quanti, e non capisco perché dobbiamo vergognarci di dire che facciamo il teatro per vivere. Perché Greta Garbo non faceva anche lei il teatro per vivere? Tutti poi subentrano con il loro talento. Ma alla base tutti facciamo una professione, un commercio. E bisogna accettare questo principio: il teatro è soltanto un dialogo col pubblico al quale vendiamo un prodotto. Poi bisogna fare come nei paesi civili, dove la Comédie Francaise e il National Theatre sono finanziati dallo stato con fondi speciali. Io ridurrei il problema soltanto a questo perché contiene in sé i germi di tutte le altre riforme: I'abolizione del favoritismo nei confronti degli autori italiani, la gabella sul repertorio italiano. Se un testo merita, non importa a quale nazionalità appartenga, deve avere Io stesso diritto di essere rappresentato: basta pensare che Shakespeare è considerato un autore straniero, Euripide è considerato un autore straniero nella discriminazione sulla tassazione. Shakespeare è trattato come il figlio della serva rispetto a un testo di... devo proprio far nomi?... ho l'imbarazzo della scelta, ce ne sono troppi. Ouindi io mi afferrerei ferocemente a questa infantile, elementare definizione della situazione. ll teatro è una cosa, i teatri stabili sono un'altra cosa. Non è che abbia risentimenti particolari. Ho risentimenti soltanto quando loro dilagano nel campo del teatro e credono di poter parlare per noi. Non ne hanno il diritto, non ne hanno la posizione. EDUARDO - Sono perfettamente d'accordo con Franco. Non potrei aggiungere altro.
EDUARDO DE FILIPPO - FRANCO ZEFFIRELLI