Dal Programma di sala ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI 1966:
- Il vecchio ed il nuovo Arlecchino
Autore: Giorgio Strehler
Il vecchio ed il nuovo Arlecchino
Marcello era naturalmente geloso del suo nuovo Arlecchino. Pure fu un maestro coscienzioso, pedante e senza secondi fini, quando si trattò di insegnare la maschera ad un giovane collega, in occasione della nostra tournèe americana, ove la garanzia del sostituto era richiesta perentoriamente. Marcello, al di fuori delle ore di prova, mi aiutò a maturare il giovane, nuovo Arlecchino. In questo semplice atto di lavoro quotidiano si racchiudeva tutta una storia. Come non pensare alla "continuità" del teatro, al mutarsi delle generazioni teatrali, ai patrimoni di esperienze che si tramandavano nel tempo? Miracolosamente, nel pieno della nostra contemporaneità, si rifaceva sul "vivo" un processo che fu tipico della Commedia dell'arte; della commedia, cioè, del "mestiere" del comico. Mestiere che un comico passa all'altro, arricchito di sè. Durante queste prove lasciavo Marcello da solo. Lo preferiva. Tutti e due in tuta, il vecchio ed il futuro Arlecchino, nella penombra del palcoscenico, provavano. Ricordo perfettamente che provavano a bassa voce, misteriosamente. Erano prove strane, condotte senza metodo, sul filo dell'esperienza, con parole e gesti esemplificativi e qualche brandello di teoria, del tutto personale. Era come assistere ad un rituale di cui non si conoscano bene lo scopo e le figurazioni. Marcello vedeva nascere giorno per giorno questo Arlecchino, timido, incerto, che ricalcava esattamente le sue orme, la voce, i movimenti; in cui però, qua e là, naturalmente, apparivano i germi di un Arlecchino diverso dal suo. E lo guardava con un sentimento complessissimo, di amore e rifiuto, di indifferenza e di gelosia e di disperazione. Il giovane Arlecchino (Ferruccio Soleri) a poco a poco aveva finito ad assimilare persino certe abitudini di prova di Moretti: dopo una scena, un grosso asciugamano intorno al collo, e dopo pranzo, addirittura un altro asciugamano attorno al viso. Così imbacuccati i due Arlecchini si aggiravano per il palcoscenico vuoto durante le pause di lavoro. Non so se queste immagini possono suscitare in coloro che leggono la commozione che suscitano in me, mentre scrivo. Forse si tratta soltanto di un sentimento di "iniziati", nato da fatti che hanno un valore solo per noi teatranti. È un mondo, il nostro, così chiuso, spesso, troppo spesso, ai margini della vita, e la "letteratura" degli attori finisce per diventare aneddotica, cedere al ricordo, al racconto di certi fatti. Forse perchè i "fatti" sono l'unica cosa concreta del nostro mestiere, perchè altro, del nostro mestiere, "l'altro", il segreto non si può raccontarlo a nessuno. Pure la tenerezza di questi due Arlecchini accostati nel tempo, mi appare qualcosa che si esprime per tutti e che a tutti dà un'immagine plastica di ciò che di più umano ha il nostro mestiere: la fraternità, il coro. Il momento più alto di questo incontro fu quando, a Salò, dove ci eravamo ritirati per provare in pace "lontano dalle tentazioni del mondo" dicevo io a metà sorridendo (ma solo a metà) in un piccolo teatro che io mi ricordavo pieno di calore e che invece risultò gelido ed estraneo, durante le molte prove generali, spesse volte alternai i due Arlecchini, nelle stesse scene. Finiva una scena con Moretti-Arlecchino e subito dopo, senza interruzione, la si riprendeva da capo, con Soleri-Arlecchino. Era un accostamento rapido, senza mezzi termini, con le stesse battute, quasi gli stessi ritmi, solo i protagonisti cambiati. Hanno i miei compagni percepito, in quel momento, la straordinaria avventura teatrate che stavano vivendo? Per conto mio, seduto nella platea, pur nella fatica tesa di tante sere, ho vissuto quell'avvenimento che forse, penso, resterà unico nella mia storia di uomo di teatro. Marcello, imbacuccato, stanco, dopo la sua scena spariva. Ma non si rifugiava nel suo camerino, caldo e silenzioso. Entrava in uno dei tanti palchi, bui e vuoti, del teatro, e là nella penombra lo scoprivo, teso a seguire i movimenti del suo "allievo". Ogni tanto scuoteva la testa e ripeteva una battuta tra sè e sè, altre volte approvava, invece, e credo che qualche volta riuscisse persino a divertirsi, con quella freschezza infantile che è la forza e la debolezza dell'uomo di teatro. Poi, alla fine, lo si ritrovava in palcoscenico, in qualche angolo, a parlare con l'Arlecchino giovane, a istruirlo, a correggerlo, con la sua solita scontrosità ed il suo accanimento. L'immagine più bella che Marcello Moretti mi ha lasciato, è questa. Voglio che di lui mi resti per ultimo, questo suo ultimo gesto: quello del dare qualche cosa profonda di sè a qualche altro.
GIORGIO STREHLER