Da SIPARIO N. 240 Aprile 1966:
- Carmelo Bene dall'opera a un Pinocchio felicissimo
- Autore: Luciano Codignola
Carmelo Bene dall'opera a un Pinocchio felicissimo
ll Pinocchio di Carmelo Bene è proprio il Pinocchio benemerito della nostra infanzia, con le care parole sapienti e maliziose di Collodi e le immagini bonariamente corrusche di Attilio Mussino, e in più quello che nessun Disney potrebbe darci, la partecipazione del bambino che ascolta quelle storie, s'identifica col burattino e vive lui quelle vicende ovvie e impossibili, quelle tentazioni, quei divieti, quegli impulsi improvvisi, quegli scoppi di disperazione, quei finti veri pentimenti, quelle consolazioni immancabili e inutili. Di tale partecipazione Carmelo Bene rende tanto l'elemento più facile, il surrealismo delle mirabolanti quotidiane associazioni d'immagini, quanto l'elemento affettivo, la risposta del lettore infantile. ll mondo dell'infanzia, si sa, è governato da leggi dure e precise, le quali portano i bambini a comportarsi in un modo che, riferito ad adulti, apparirebbe barbaro mostruoso, anzi sadico e pieno di narcisismo e di libidine. E gli adulti spesso lo considerano tale e si regolano di conseguenza, sforzandosi in ogni modo di piegare i bambini alla cosiddetta buona condotta (assonanza carceraria, giustissima). ll bambino si piega quando non può farne a meno. Ma che boccacce, che beffe, che lampi di speranza in un buon cataclisma che spazzi via sull'istante dalla faccia della terra tutti quei babbi e mamme, e le nonne le zie le serve le balie, i maestri e le maestre, e i bidelli gli istitutori i preti e Ie monache, che gli stanno intorno ad ammonire minacciare ricattare blandire corrompere: a educare. ll bambino sa benone cos'è che i grandi vogliono da lui, ridurlo a loro immagine e somiglianza. Dio, somigliare a quel cretino di mio padre, Gesù, imitare quella bugiarda di mia madre! Bisogna piegare il capo, ma me la pagheranno... Questa è la chiave del Pinocchio di Carmelo Bene, poetica e malinconica, umoristica e bizzarra, un po' tenera un po' crudele e molto vera. Non si tratta, come s'è detto, di una dissacrazione del libro di Collodi, semmai di una lettura che aderisce e interpreta il testo, come dimostra I'azzeccatissimo accostamento, a contrario, col Cuore di De Amicis, bibbia di empietà, antologia di sadismi. Collodi ammiccava fra le righe, contestando le scempiaggini dei Geppetti e delle Fate Turchine. La sua prosa rimane quasi unica nella nostra lingua per i valori che sottintende e per l'umorismo (e poi si parla tanto dell'umorismo dei Promessi Sposi...). Carmelo Bene, giustamente, sostituisce agli ammiccamenti di quei brani narrativi un certo modo di recitare i dialoghi, che ne rispetta puntualmente il testo. E Pinocchio risulta finalmente quello che è, un ragazzetto che pronuncia i soliti voti di castità povertà ubbidienza, ma nello stesso tempo giura, a voce alta, con solennità, sul Vangelo, che disubbidirà. Disubbidirà disinteressatamente, eroicamente, fino all'ultimo respiro... se glielo lasceranno fare. lnsomma il Pinocchio di Bene ci fa pensare a tante altre cose, compresi i soliti Rimbaud e Jarry. Ma poi, al diavolo i libri, ci fa pensare alla nostra infanzia, ai rospi che ci toccava d'ingoiare quand'eravamo bambini. Detto ciò devo anche aggiungere che per conto mio questo Pinocchio è stato finora lo spettacolo più inventato, più estroso e festoso, più piacevole, insomma più riuscito, della stagione romana. ll pubblico purtroppo I'ha disertato e la critica non se n'è molto occupata. Strano. Gli anni scorsi, quando Bene si esibiva in gesti tracotanti e presentava spettacoli turbolenti fumosi e spesso sconclusionati, era sulla bocca di tutti. Ora che ha maturato uno stile che è veramente suo, pare che non interessi più. S'è tanto chiacchierato negli ultimi tempi, di messinscena semantica, ebbene l'unico o quasi, palcoscenico dove ne abbiamo visto un esempio è stato proprio quello di Pinocchio, fra quel sontuoso ciarpame tricolore. Uno spettacolo, fra l'altro, che deve essere costato quattro soldi: ragion di più per apprezzarne i rlsultati. Con Pinocchio avevamo visto, in questa stessa stagione, I'altra faccia di Carmelo Bene, con Faust. C'è differenza, fra i due tipi di spettacolo. Uno spettatore sprovveduto che fosse entrato per caso nella sala dove si recitava Pinocchio, si sarebbe identificato probabilmente col burattino, e nel senso che s'è detto. Ma lo stesso uomo capitato a vedere il Faust senza saper nulla di Carmelo Bene e delle sue intenzioni, che immagine avrebbe riportato? Certamente I'immagine tradizionale del melodramma italico alla Donizetti e alla Verdi, o del grand opéra alla Mayerbeer (e non il volto nuovo e sofisticato dell'Opera di Roma, diventata ormai una succursale del salotto Bellonci). ln queste occasioni tipo Faust, sulla scena di Carmelo Bene c'è tutto, dell'opera: i velluti, gli ori, le porpore, i fumi e le fiamme, le truccature e le parrucche, i duelli e i duetti, i si bemolle e i do di petto, le vergini e le prostitute, il comparsame i pugnali e le agonie. Tutto, in breve e senza musica. E senza la parola. Anzi: con la stessa precisa assoluta decisiva assenza di parola. ll nostro uomo tornerebbe a casa con una sua ingenua immagine di Carmelo Bene, quella di un ritardatario che non si consola di non essere un Gigli o un Leoncavallo, e neanche un Angelo Ouesta o un Sergio Failoni; uno che accetterebbe anche di recitare come Zacconi o Gassman, scenderebbe al Ghiringhelli o al Paone... e invece nossignori, a Carmelo Bene non fu dato di cantare né di scrivere né di suonare e neppure di amministrare per la Scala (forse anche per la buona ragione che in realtà la Scala non c'è più). ll nostro Carmelo si dev'esser detto, a qualche livello più o meno lucido della sua coscienza: quand'è cosi, la Scala me la farò io: e in casa: e più vera di quella vera... Quanto rimarrebbe male il nostro povero spettatore sprovveduto se gli si dicesse che non ha capito niente, che è vero proprio il contrario e che Carmelo Bene si propone la demistificazione dell'opera! E sia, potrebbe rispondere I'ingenuo: però se il melodramma non se lo sentisse ben vivo dentro, Carmelo Bene che bisogno avrebbe di negarlo a quel modo funesto? (E qui io confesso che non saprei bene che cosa replicare, anche perché intanto mi sarei perso dietro Ia traccia della parodia dell'opera, una traccia che porta lontano.)
LUCIANO CODIGNOLA