Un personaggio al mese: Luca Ronconi
Al confine dell'avanguardia
Lei è uno dei registi giovani che con I'allestimento de I lunatici di Middleton e Rowley, ha ottenuto uno dei più lusinghieri successi di critica e di pubblico di questa stagione. Quali sono i suoi precedenti nella regia teatrale?
Di precedenti ne ho pochissimi; ho messo in scena uno spettacolo goldoniano nel 1963 che andò malissimo. La compagnia, formata da Corrado Pani, Carla Gravina e Gian Maria Volonté, si sciolse dopo quindici giorni di repliche; fu un'esperienza amarissima. Ouest'estate ho allestito Gli straccioni di Annibal Caro e I lunatici con l'intenzione di sfruttare lo spettacolo per la stagione invernale.
Quali sono stati gl'interessi che I'hanno portata dalla recitazione alla regia?
Ouando recitavo spesso mi trovavo non convinto di quello che facevo; non riuscivo a mettermi in rapporto con tutti gli altri elementi dello spettacolo; sentivo la necessità di cercare analogie, rapporti, non tra un personaggio e una situazione, ma fra tutti gli elementi del testo. Mi piaceva di più star fuori e guardare, smontare, rimontare, confrontare. Quando poi volli fare il regista, all'inizio mi consideravano un parvenu, perché da noi l'attore è ancora molto svalutato, non tanto nell'opinione del pubblico, ma nell'opinione reciproca. Si pensa che sia un idiota, un ignorante, uno che non può fare niente altro che recitare, un incolto insomma, un incivile. lnvece da Molière a Osborne a Eduardo i risultati dimostrano che per scrivere belle commedie bisogna conoscere il teatro fin nelle viscere, essere un pochino anche attori. Per scrivere una battuta, e lo dico per la mia esperienza di traduttore, bisogna prima dirla, recitarla dentro. Molti letterati, magari bravissimi, non riescono a scrivere per il teatro proprio per questo: la battuta non riescono a dirla prima di averla scritta.
A proposito del suo allestimento si è parlato di Teatro della crudeltà. C'è stata, da parte sua, la consapevolezza estetica e la volontà di portare sulla scena italiana e in un contesto più ampio il discorso di Artaud oppure è un caso che certe tendenze del teatro contemporaneo si manifestino quasi parallelamente, tenendo conto che tutti gli spettacoli piu interessanti delle ultime stagÌoni in Europa si ricollegano alle indicazioni di Artaud?
È possibile che come punto d'arrivo abbia fatto qualcosa di simile a ciò che si pensa sia il teatro della crudeltà; però non ho avuto I'intenzione di adottare le teorie di Artaud e applicarle a un determinato testo. Benché irisultati non sembrino quelli di uno spettacolo che nelle intenzioni voleva essere estremamente modesto, ma possono dare l'impressione di uno spettacolo un po' battagliero, ii metodo di lavoro che ho seguito è partito soprattutto dalle parole, dalla Iingua scritta; nel tentativo di portarle alle estreme conseguenze, il più a fondo possibile, con un tipo di recitazione non del tutto tradizionale, posso avere raggiunto il tipo di risultati che sono stati attribuiti al mio spettacolo. Non ho visto né gli allestimenti di Peter Brook, né I'Amleto di Marowitz (mi hanno detto che era molto interessante). Comunque sono dell'idea che non sia possibile copiare; naturalmente c'è nell'aria un certo modo di vedere le cose per cui contemporaneamente in cinque paesi diversi cinque registi o cinque romanzieri diversi realizzano, a seconda dell'ambiente in cui si muovono, più o meno la stessa cosa. Dieci anni fa, per esempio, si facevano dei belli e dei brutti Amleti, ma tutti più o meno entro uno schema interpretativo che poteva essere, esemplificando, storicistico o politico. Oggi invece se un altro regista, in Argentina o in Francia, allestisse I lunatici, pur non usando le stesse soluzioni sceniche o tecniche del mio spettacolo, si muoverebbe probabilmente nella mia stessa direzione.
Sono stati motivi di carattere estetico o piuttosto di affinità fra I lunatici e gli umori e le tendenze del teatro contemporaneo che l'hanno spinta alla scelta di questo testo?
I motivi del sesso, della violenza, il peso di un'autorità precostituita sono più o meno comuni a tutto il teatro elisabettiano e non soltanto al teatro elisabettiano. ll testo di Middleton mi è sembrato interessante per il nostro gusto di contemporanei soprattutto per la sua struttura drammaturgica. Ciò che mi ha soprattutto affascinato non è stato tanto il doppio binario di vicende, comune a tutto il teatro elisabettiano, ma l'ambiguità dei rapporti (i pazzi che agiscono come sani e viceversa) e Ie estreme conseguenze a cui l'intrecciarsi delle vicende viene portato.
Quali sono le sue scelte per il futuro?
Dirigerò Riccardo III di Shakespeare, tradotto da Rodolfo Wilcock, per il ritorno di Gassman al teatro dopo il suo spettacolino di quest'anno alla Cometa. Formerò compagnia con Valentina Fortunato, Sergio Fantoni e Lilla Brignone coi quali allestiremo La monaca di Monza di Testori con la regia di Visconti e Misura per misura con la mia regia. Stiamo pensando a una novità italiana, ma non abbiamo deciso cosa; mi sarebbe piaciuto un testo di Tullio Kezich, ma penso che sarà difficile realizzarlo per la mancanza di un ruolo adatto alla Fortunato. Mi piacerebbe moltissimo sperimentare testi contemporanei; purtroppo, per le necessità del nostro mestiere, non ci si può permettere testi che poi vanno male. Mi piacerebbe, per esempio, poter affiancare all'attività della compagnia un'attività sperimentale con gli stessi attori, senza preoccupazioni di riuscite commerciali. Ma d'altra parte c'è ben poco da scegliere; tanto per fare un esempio, non mi piace Pinter e trovo brutte, anche se abilissime, le commedie di Peter Weiss. Mi piacerebbe moltissimo mettere in scena Genet.
Quali sono state le difficoltà obiettive di questo suo primo spettacolo importante?
Mi ritengo abbastanza fortunato; non credo che siano in molti coloro che possono scegliersi il testo, gli interpreti come ho fatto io. Se le condizioni in cui ho cominciato io fossero una regola, devo ammettere che ci sarebbero più talenti nel nostro teatro. Ciò non toglie che abbia avuto difficoltà di carattere interno: ho lavorato alla traduzione e alla preparazione de I lunatici per otto mesi: ed è stato arduo trovare gli attori che volevo io.
Ritiene che per poter articolare un discorso contenutistico e formale nell'ambito del teatro italiano sia utile appartenere a un gruppo?
Credo di si, purché il gruppetto non diventi un clan; è necessario che le esperienze si rinnovino; voglio dire che all'interno del gruppo è necessario ci siano persone che operino in un certo indirizzo. Soprattutto nell'ambito dell'attività teatrale privata, dove sono necessari gruppi che perseguano indirizzi estetici completamente opposti.
Quale crede possa essere il rapporto tra l'attività teatrale ufficiale e quella svolta dai nuovi gruppi che lanno esperimenti nei propri teatrini?
La risposta è un po' difficile. lo li ho seguiti fino a un paio di anni fa; purtroppo mi sembra che questi grupgi stiano attraversando un periodo di involuzione. Adesso succede che procedimenti e metodi usati dall'avanguardia siano subito recepiti dal teatro ufficiale; la loro posizione diventa quindi più difficile. Giudico in modo più severo e più sottile le proposte che ci fanno, tanti problemi di coerenza, di novità, prima rimanevano un po' in second'ordine rispetto al fatto in sé, e cioè un'avanguardia comunque. Oggi il problema è quello di quale avanguardia. Ed e il caso di porsi molti più interrogativi di quelli che ci si poneva dieci o cinque anni fa. Per quanto riguarda la mia personale esperienza, io esplico Ia mia attività all'ìnterno del teatro ufficiale, con una compagnia che recita in teatri regolari per una stagione intera, con la necessità dell'affluenza del pubblico per sopravvivere. Non posso certo qualificare il mio "teatro d'avanguardia". D'altra parte i miei metodi di lavoro non sono quelli usati dalla maggior parte dei miei colleghi perché, in ultima analisi si avvicinanò di più a quelli impiegati da questi gruppi sperimentali. Non dico di fare qualcosa di più nuovo rispetto a ciò che si è fatto finora, ma qualcosa di diverso, per esempio, quando si recita con gli attori il punto sul quale mi soffermo di più è vedere sotto quale prospettiva si può interpretare un testo, capirlo di più, approfondirlo, non solo per quanto riguarda il singoto personaggio come si è tatto fino a oggi. I registi in genere tendono a spiegare all'attore che cosa sente, come è sistemato, che cosa rappresenta il personaggio. Oggi invece è il testo nella sua totalità che interessa; questo genere di lavoro mi sembra un pochino (per carità non è un lavoro rivoluzionario né nuovissimo) più impegnato di come lo era, per esempio, nelle compagnie teatrali dove ho lavorato prima come attore.
Quale può essere l'orientamento più Iegittimo di un giovane regista nell'ambito del teatro italiano oggi?
Ouando ho cominciato io a recitare quella di regista sembrava una professione accessibile a pochissimi, con esigenze formali estremamente meccanizzate. Era il tempo delle regie preoccupate soprattutto del lato tecnico, spettacolare e formale dello spettacolo. Oggi invece il lato professionale della regia mi sembra un po' trascurato a beneficio di una maggiore libertà, fantasia e capacità inventiva. Purtroppo I'ambiente è un po'chiuso per un giovane regista che cominci. D'altra parte ciò che manca nel teatro italiano, secondo me, non sono i registi ma gli attori.
Che ne pensa dell'attore italiano?
Oggi c'è soltanto gente che "fa" l'attore. La differenza che c'è fra I'attore e chi "fa" I'attore è la stessa, secondo me, che esiste fra uno scrittore e un letterato. Oggi si recita abbastanza bene, però manca (e soprattutto nelle ultimissime leve) una generazione di attori che diano un loro apporto personale allo spettacolo. L'attore italiano più o meno sa tante belle cose; capisce qualcosa di letteratura, s'interessa di problemi sociologici, sa riconoscere un mobile d'antiquariato, ma non per questo è un attore più colto. Un attore più colto è magari quello che in un campo ristrettissimo, che è quello suo specializzato, ha una cultura e una coscienza critica. In tutti i paesi del mondo gli attori vivono una vita d'attori. Qui invece no. Vivono una loro vita di finti avvocati. Vanno in teatro, recitano, se ne tornano a casa e tutto finisce li. La forza vera dei gruppi d'avanguardia - mi riferisco al caso di Carmelo Bene - è quella di portare fino in fondo le esperienze non solo di regia, ma anche di recitazione. lo lo trovo straordinario. La maggior parte degli altri nostri coetanei "fanno" gli attori. Hanno imparato che emettendo la voce in un certo modo, rispettando la punteggiatura in un certo altro modo, andandosene a casa e facendo la vita che tutti gli altri fanno si diventa attori. Non è vero, cosi si fa solo il mestiere dell'attore. Essere attore significa qualcosa di più grosso, un modo di vivere, è avere un coraggio delle proprie debolezze, dei propri difetti, dei propri vizi, delle proprie convinzioni talmente forte che noi diventa qualcosa che ti porti dietro in scena, in ogni cosa che fai. ll grigiore, l'uniformità del nostro panorama d'attori è dovuto a questo, alla mancanza di dedizione, che in fin dei conti è richiesta per riuscire anche nelle altre professioni. lnvece no, si pensa che fare l'attore sia una sinecura.
La sua compagnia quest'anno comprendeva molti elementi giovani. per sua intenzione o per una scelta casuale?
Quando si vuole tentare certe strade, come ho fatto con I lunatici e come farò con Misura per misura, è ditficile che gli attori di una certa generazione ti seguano. Mi è capitato di parlare con alcuni attori maturi della impostazione che avrei voluto dare alla recitazione: sono rimasti inorriditi. Non arrivavano a capire, per esempio perché non si arrivasse a distinguere i pazzi dai savi. Ho scelto giovanl attori perché sono piu elastici e pronti al genere di lavoro che voglio fare. Ed è perché ci tengo a scoprire una generazione di attori più vivi e personali che quest'anno ho accettato di insegnare recitazione all'Accademia.
IVELISE GHIONE
Nelle foto Sergio Fantoni e Valentina Fortunato in due fotomontaggi di Giorgio Lotti
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