Dal Programma di sala KUNG LEAR 1985:
- "Lear" erotico e feroce col genio di Bergman
Autore: Roberto De Monticelli
"Lear" erotico e feroce col genio di Bergman
Un'interpretazione scarna delta tragedia, senza apparati scenografici e attrezzerie, con tutti gli attori presenti alla ribalta anche quando non partecipano all’azione. Le continue metamorfosi di uno spettacolo che porta in primo piano le due figlie crudeli Goneril e Regan, evocate con un sottofondo di sensualità e violenza.
Il Re Lear di Shakespeare sta al culmine di ogni possibile avventura di teatro. Bergman vi arriva a 65 anni, dopo una carriera folgorante, mentre in tutto il mondo il suo ultimo grande film sta ottenendo un successo clamoroso. E' veramente, il suo, un gesto di coraggio: anche la conclusione di un itinerario? Non credo, vista la vitalità, ancora aspra e provocatoria, di questo spettacolo. Non vorrei dare, così a caldo, una definizione di questo spettacolo. Del resto, a che servono le definizioni? Sono in genere così personali, opinabili. Meglio andare per via d'immagini, in una linea di oggettività descrittiva. Devo dar conto di ciò che accade e in una lingua inaccessibile, su una ribalta così lontana dalle nostra abitudini e frequentazioni di spettatori, dalla vita delle nostre sere. E allora, ecco qua: prima di tutto lo spazio. Bergman colloca la tragedia in uno spazio circolare, delimitato da un fondale color rosso sangue interrotto al centro da un parallelepipedo che s'alza verticale, dello stesso colore. Già il segno della fluidità di uno spettacolo che non si fissa in luoghi deputati, che non fa uso di attrezzi scenici, che tiene tutti i personaggi sempre presenti nel recinto dell'azione, anche quando non vi partecipano (la scena e i costumi, d'una policromia squillante ma anche di una rudezza barbarica, sono di Gunilla Palmstierna Weiss, la moglie di Peter Weiss), è rivelato da quella pantomima iniziale, le luci ancora accese in platea, il pubblico che va prendendo posto: una specie di ballo di corte e insieme una esercitazione di attori che si svolge, al di là d'una barriera di neri armigeri, schierati alla ribalta, che ci voltano le spalle. Questi armigeri saranno molto importanti nella coreografia dello spettacolo, ne ritmeranno gli spazi. Se un senso posso infatti trarre dallo spettacolo che comincia dopo quella specie di libero training attorale e i tre colpi rituali battuti sul palcoscenico è della metamorfosi e della violenza. ln quello spazio circolare, metafora visiva di “this great stage of fools”, questa grande arena di pazzi, la metamorfosi è continua: gli armigeri che diventano muraglia, esercito, corteo funebre, valanga di oscura forza che ciecamente rotola e schiaccia; i due cori, che si fanno ambiente di corte, ambigua mascherata, orecchio che ascolta, occhio che vede; che si fanno alberi del bosco, gementi e oscillanti sotto la tempesta in uno scorrere di luci fluide; che si fanno catafalco, tavola, sgabello, strumento di tortura, in una continua assunzione di analogie mimiche sostitutive di qualsiasi oggetto di scena, qui non ci sono che corpi umani nello spazio. La violenza è l'altra grande componente dello spettacolo, una violenza che si innerva d'un segno tipicamente bergmaniano, l'erotismo. Non per nulla il regista porta in primo piano le due sorelle crudeli, Goneril e Regan, lasciando più in disparte, flauto malinconico, voce della dolcezza, Cordelia. Le vere protagoniste dello spettacolo, accanto a Lear, interpretato da quel grande attore che è Jarl Kulle (uno dei tre fratelli Ekdahl in Fanny e Alexander), sono loro, Goneril, che è Margaretha Bystrom, un'attrice imponente, dai lineamenti decisi e alquanto duri, Regan, che è Ewa Froling (pure nel cast di Fanny e Alexander), una bionda sottile che alla dolcezza può alternare una maschera di derisione e di ferocia. La violenza delle due sorelle non è solo di pensieri ma di gesti e a questi non manca mai un sottofondo di zolfo erotico. In questo sviluppo di ferocia e di erotismo, che ha qualche aspetto di incubo onirico (per esempio la bellissima scena dell'accecamento di Gloucester al culmine di un ballo mascherato che muove sullo sfondo un mostruoso bestiario, gli stessi Albany e Regan, che cavano gli occhi al vecchio, hanno sul volto maschere da tigri) Lear percorre il suo itinerario di conoscenza attraverso la follia e la furia degli elementi.
E' uno spettacolo tutto sparso di simboli vistosi e intensi, connessi l'un l'altro con una coerenza e consequenzialità naturali, organizzali in un discorso insieme critico e poetico. Il senso dello spettacolo si rivela solo alla fine quando solennemente, con lentezza rituale, i corpi inanimati di Lear e Cordelia vengono portati a spalla verso il proscenio. Allora Edgar solleva la corona di Lear che, dalla prima scena, quando il vecchio ha diviso il regno tra le figlie, è rimasta posata alla ribalta, simbolo di un potere intorno a cui tutta la tragica metafora scespiriana ha ruotato. Ed ecco che rintocca forte un colpo, lo scenario crolla, il palcoscenico rimane nudo. E la conclusione della tragedia dei mutamenti, lo svelamento della verità del lampo abbagliante della morte che rende vani l'agitarsi e l'affannarsi dei “poveri esseri umani” (con questa citazione dal “sogno” strindberghiano Bergman apre la sua prefazione al libretto dello spettacolo): ma è anche la fine dell'illusione teatrale, così palese, così deliberatamente mostrata, al cui interno lo spettacolo ha vissuto per tre ore e mezzo, Anche Strehler, al termine di un'altra grande messa in scena scespiriana, aveva compiuto lo stesso gesto, denudando lo scheletro, il fasciame di quella barca che ha nome immaginazione. I maestri arrivano sempre, ad un certo punto della vita, alle stesse conclusioni. E a quel punto, ogni volta, uguale è l’emozione di noi che assistiamo.
Roberto De Monticelli Corriere della Sera, 10 marzo 84