Che cosa ha fatto Macbeth?
Che cosa ha fatto Macbeth? Egli ha ucciso il Re per ESSERE lui RE. Ma appena È re, si accorge di non POTERLO ESSERE con CERTEZZA. Macbeth infatti NON è un RE SACRO, per volontà trascendentale e diritto di sangue, ma si è FATTO re, per volontà individuale e macchiandosi di sangue. Macbeth dunque NON È re ma DEVE FARE il re, non potendo mai ESSERE re. Quest'uomo ha cercato di realizzare il suo desiderio (rimosso e riemerso per la profezia) al di fuori del disegno di un cosmo simbolico (circolare, tolemaico, perpendicolare) che disegna discendenze ed essenze attraverso misteriosi voleri trascendentali, che si ripetono immutabili nel TEMPO (un tempo simbolico, circolare e cerimoniale, dove le discendenze si trasmettono perpendicolari) un Tempo, forse falso, ma perfetto - che governa un universo, forse falso, ma perfetto: (sfere di cristallo che ruotano intorno alla terra). Macbeth ha tagliato questo tempo simbolico perfetto e rassicurante con un taglio assassino: uccidendo il vecchio re Duncan. Ora l'UOMO - MACBETH si trova in un tempo moderno, lineare, precario, incerto, dove la certezza dell'ESSERE (non confermata da un modello simbolico che Macbeth col suo FARE ha DISFATTO) è messa continuamento in scacco. ll tempo di Macbeth è quello dove l'uomo deve trovare continuamente la conferma del suo ESSERE, col FARE che, appunto, è un FARE incerto, inutile, non definitivo. Dove la perfezione dell'ESSERE è un'illusione impossibile. Un tempo fatto di un'interminabile sequela di DOMANI, DOMANI e DOMANI che conducono alla "polverosa morte". Il fare di Macbeth è il "fare" dell'uomo nel precario tempo lineare: una serie di atti imitati. Sono imitazioni goffe di cerimoniali ormai privi di senso perché il senso intimo è stato distrutto, perduto, dimenticato. Il fare umano di Macbeth è una serie di atti recitati da un povero attore-guitto, in un dramma inutile, in una scena ormai svuotata dal misterioso senso trascendentale. Il tempo lineare di Macbeth è un tempo incerto, di orrori e di paure, di grotteschi intrighi, di sangue. È il tempo di un uomo moderno condannato al FARE ossessivo nell'ossessiva impossibilità di ESSERE. Uomo "moderno" e non "nuovo", non portatore di un "nuovo" modello di realtà, ma testimone e interprete di una disperata soggettività, di una disperata individualità inconciliabile con un'antica certezza collettiva, perduta, dell'ESSERE. Un uomo non religioso (cioè non unito con gli altri uomini, ma solo), attore che si agita in una scena vuota, un lungo corridoio prigione, che l'uomo percorre incerto, meschino, goffo. Macbeth è il personaggio più solo, più autocomunicante di Shakespeare. È un uomo inguaribilmente malato di nostalgia. Nostalgia di un antico mondo che lui stesso ha distrutto ("...c'è stato un tempo in cui..."), nostalgia di una sicurezza dell'ESSERE perduta ("ESSERE così È NULLA SE NON LO SI È CON CERTEZZA"). Eroe di una epoca moderna individuale, così turbata e così "nostra". È un'epoca che esce da un mondo antico luminoso, rassicurante, cerimoniale (tolemaico), sta sulla soglia di un'epoca buia, insicura, turbata, disordinata (copernicana). Sandro Serpieri nel suo saggio dice: "Quale è la natura nascosta e moderna di quel DEMONE di POTERE che insegue MACBETH fin dall'inizio? È l'ESSERE inseguito non collettivamente attraverso un rituale, una "ceremony" (anche vecchia e invecchiata o soltanto ricordata) ma attraverso una, moderna appunto, individualità che sfasa il suo "lo" tra il desiderio e la realtà". Appena Macbeth agisce dentro la profezia perché si avveri e diventi realtà, deve muoversi contro la Profezia che vuole Banco padre di una stirpe di re. La profezia avverata gli dà una certezza di ESSERE che però è tutta INCERTEZZA di ESSERE, fino in fondo, ciò che si crede di ESSERE. Scacciare l'incertezza costringe a "FARE". La CERTEZZA che è OCCHIO che vede deve lasciare il posto alla incertezza che è MANO che fa. E allora è meglio "essere" nell'INCERTEZZA di "essere" o "non essere" nella CERTEZZA di "non essere"? È la domanda di tutta la poetica Shakespeariana. Perché questa scenografia? Perché questi costumi? Sono le domande che il pubblico si pone subito quando vede uno spettacolo a cui il regista deve dare una risposta proprio nello svolgersi dello spettacolo stesso. Comunque, per chi vorrà leggere queste note, le risposte sono queste. La scena rappresenta un corridoio fortemente in fuga, in fondo uno specchio ne raddoppia la lunghezza e in esso si potrà immaginare il pubblico riflesso. Il corridoio è per me il TEMPO LINEARE: prigione e manicomio. Penitenziario del FARE. Il costume del vecchio re è un 'vecchio" costume convenzionale come potrebbe disegnarlo un bambino: un re con la palla e lo scettro. Rispetto al "vecchio" e all’ "antico" ci sono i "nuovi" e i "moderni" anch'essi convenzionali nei loro costumi sui quali talvolta portano delle stole che ricordano i rituali di un cerimoniale perduto e dimenticato. Questi scialli assomigliano al mantello del re. Anche le streghe appartengono a un mondo convenzionale di paura e perciò le ho vestite in modo convenzionale, di stracci, come ogni buona strega che si rispetti. Le ho fatte muovere sempre in circolo come le loro battute, i loro ritornelli: "Le sorelle fatali mano nella mano, veloci viandanti del mare del mondo, così vanno in tondo in tondo". Esse intersecano il tempo umano portando la loro sovradeterminazione maligna. È un male antico, sempre quello, quello delle antiche filastrocche che ancora cammina "in tondo in tondo" è il male dell'ESSERE. Ho cercato di fare un personaggio anti-eroico. Che si muove in modo grottesco e maldestro nel tempo e nel mondo che lui stesso ha costruito col suo distruggere. Un uomo consegnato tutto al groviglio del suo "immaginario" reso "carnale" dalla sua complice moglie. Devo ringraziare Sandro Serpieri, il traduttore, e il suo saggio "Macbeth, il tempo della Paura", che è stato l'indispensabile aiuto senza il quale tutto sarebbe stato più difficile. Ringraziamento che non è uno scarico di responsabilità. Di tutto quello che avviene sulla scena sono io il solo responsabile, ma è un grazie a un amico di vecchia data con cui ho tanto lavorato e a cui devo tanto. E devo anche ringraziare il Teatro Giulio Cesare di Roma che mi ha permesso di tentare questa edizione del capolavoro di Shakespeare.
GABRIELE LAVIA