Teatro La Fenice di Venezia presenta "Stagione Lirica Invernale"
Otello (1947)
Dramma lirico in quattro atti di Arrigo Boito - Musica di Giuseppe Verdi
- Interpreti principali: Francesco Battaglia (Otello) Renata Tebaldi (Desdemona) Piero Guelfi (Jago) Aida Londei (Emilia) Cesare Masini Sperti (Cassio) Sante Messina (Roderigo)
- Maestro Concertatore: Mario Rossi
- Regia: Livio Luzzato
- Maestro del coro: Sante Zanon
Programma di sala (pagine 28)
- Stagione Lirica Invernale 1947
- Elenco artistico
- Giuseppe Verdi e Otello
- Opere dello stesso autore
- Calendario degli spettacoli
Giuseppe Verdi e Otello
Verdi per l' Otello ebbe cinque anni di perplessità, di inconsuete incertezze. “Debbo proprio finire quest' Otello?.. per me è indifferente”. Nel suo temperamento rapido e sempre appassionato nell'attuazione, questa freddezza sembra addirittura un’ostentazione; una specie di auto difesa istintiva con cui si nasconde l’ansia di un superamento, proprio di chi teme di non raggiungere il fondo della propria visione, di non abbracciarla tutta in un ultimo abbandono. Mascherava quel suo amore con l’atteggiamento di una stanchezza trascurante; e forse anche mascherava una volizione che - dopo i tentativi abbandonati di Amido e Re Lear - poteva, nel suo spirito incontentabile apparire temeraria, essere un’incognita che avrebbe potuto risolversi in una delusione. E gli sembrava che ormai per lui settantenne il tempo preci¬pitasse verso la morte. “Lavorare tanto e poi dover morire”. Confessava a se stesso la necessità. di una tranquilla penetrazione, di una meditata elaborazione interiore. Ma intanto, in quei cinque anni, il pensiero musicale covava e perfezionava profondamente. E nell’inverno dell' 84 lavorava su l’Otello “con decisa avversione al poi”. Nell' estate dell' 85 la partitura era finita. Una partitura insolitamente tormentata, piena di pentimenti, di correzioni, di grosse raschiature. È l’eloquente testimonianza della sua combattuta conquista, la confessione della sua più ardita lotta d'amore. Poiché si può credere che questa ultima sua tragedia egli l’amò più di ogni altra. Quella sua ricercata affettazione esteriore nascondeva un attaccamento geloso. L'Otello egli l’aggredì a poco a poco con un cauto approfondimento e per dominarlo interamente si perfezionò poiché era spinto da una passione acuta. Di fatto per l’Otello calpestò le sue esperienze, trasgredì le sue stesse leggi, rinnovò il suo slancio sinfonico, uscì dal consueto giro armonico, trasformò il suo più radicato linguaggio drammatico. Qui sono scomparsi gli accordi ribattuti e i ritmi danzanti, sono abolite le cadenze a ripetizione. Verdi non concede più soste al suo discorso. Ha creato una lingua nuova, ha dato un significato a tutto: una linea alle inflessioni più fuggevoli, una essenziale musicalità alle spezzature più rapide della parola. Egli ha piegato la nota alle esigenze psicologiche e metriche del discorso prosastico. Per accogliere interamente quella vicenda lugubre e feroce egli ha dilatato l'orchestra, ha intensificato i “fiati”, li ha accostati con urti di timbri, scrosci di sonorità, languori cupi, bagliori squillanti che accentrano in un grido sinistro tutta quella tenebrosità veemente. Verdi voleva le situazioni disperate, torbide: scartava spesso le strofe in cui non trovava abbastanza agitazione e disordine: egli voleva plasmare passioni e sciagure. Al tempo in cui meditava sul Re Lear scriveva al suo librettista Somma che il personaggio più affascinante era il conte di Gloucester, il “franco e completo scellerato”. La sua umanità musicale trovava il vertice espressivo al violento rilevarsi della sfrenatezza degli istinti, di quel genio satanico che ama le catastrofi luttuose, di quella volontà di rovina che giace in fondo all’esistenza umana. Questa invincibile legge del mondo provocava nel suo genio quel travolgente creare delle sue “ore vertiginose”. L'Otello gli offriva la possibilità di un atto supremo di con penetrazione in quella sua sintesi estrema del dramma che egli, forse inconsapevolmente, aveva cercato attraverso tante vicende di peccato e di morte. Qui egli aveva “il demonio che muove tutto”. In questa tragedia piena di incubo fisico il terrore diventava azione folgorante, il peccato esplodeva come un pauroso sentimento d’inevitabile. Perfidia, lussuria, gelosia sul capo di una donna facevano una luce d'inferno. La superbia malvagia, il sarcasmo delittuoso creavano l'urto più violento del turpe e dell’innocente. Verdi si era dibattuto prima di assumere l'ultima e la più alta forma tragica: ma gli uscì tutta di un fiato, compatta, in un incendio di sentimenti. Non ci sono più pause, né riposi, né ricuciture. Non ci sono più le corse del “recitar cantando” e le soste delle “romanze”. Sciolto nel tumultuoso fraseggiare drammatico, il recitativo è diventato “arioso”, le “arie” sono divenute atmosfere liriche. Il dramma precipita dallo schianto della tempesta al gemito del morente inesorabile come una meteora. Il gigantesco pessimismo di Shakespeare scroscia nella musica come l'acqua dalla cima di un monte. Più alto era l'urlo dell’uomo, più angoscioso il suo dibattersi nel breve cerchio della sua miseria terrena e più rapida si faceva in lui la piena del sentimento musicale. Ed egli seppe raggiungere il terribile e l’inevitabile.