Febbraio 1941 - Anno X - Numero 2
SCENARIO lo spettacolo italiano
Rivista mensile delle arti della scena - Direttore Nicola De Pirro - SOC. AN. EDITRICE "CINEMA" - Roma
- In questo numero:
- VOLO A VELA il testo completo della commedia in tre atti di Gino Rocca - Il ricordo di Giacinta Pezzana (di Mario Corsi) - Imparare la parte (di Silvio D'Amico) - Applausi (di Arnaldo Beccaria) - Una misica inedita di Giuseppe Verdi (di Arnaldo Furlotti) Riprese e novità del mese
- In copertina: Luigi Cimara e Evi Maltagliati in "Non si sa mai"
Ricordo di Giacinta Pezzana nel primo centenario della sua nascita
Nata a Torino, da genitori modestissimi, il 23 gennaio del 1841 - esattamente un secolo addietro - non figlia d'arte, al teatro Giacinta Pezzana pervenne giovanissima per naturale inclinazione e per necessità di vita. Gli inizi furono tristi e difficili. Uscita da una scuola di recitazione di Torino, per due o tre anni dovette adattarsi a recitare in compagnie di guitti. Poi, nel 1859, riuscì ad entrare nella Compagnia dialettale piemontese di Giovanni Toselli. Vi rimase appena due anni; dopodiché fu scritturata in una Compagnia italiana primaria, quella dei Dondini, di cui era primo attore Ernesto Rossi. Il Rossi era già un attore notissimo e acclamato: ma con la Pezzana si dimostrò fin da principio ostile, qualificandola una "dilettante". Ma dovette poi ricredersi, e riconoscerne le non comuni virtù drammatiche, scegliendola qualche tempo dopo per la parte di Desdemona nell'Otello. Negli anni che seguirono Giacinta Pezzana fece parte delle migliori Compagnie italiane, da quella di Luigi Bellotti-Bon a quella di Adamo Alberti, da quella di Luigi Monti a quella del Teatro dei Fiorentini di Napoli. Affermatasi attrice di mezzi non comuni, seppe eccellere in quegli anni nei più disparati generi drammatici: nel proverbio e nella commedia, nel dramma popolare, in quello storico e in quello borghese, ed anche nella tragedia. Fu protagonista ammirata e lodata nella - Mirra dell'Alfieri -, nella - Messalina di Cossa -, in - Causa ed effetti - e nel - Suicidio di Ferrari -, nella - Medea di Legouvé -, nella - Giuditta di Giacometti -, nella - Signora delle camelie - di Dumas, nella - Adriana Lecouvreur; e parecchi anni dopo, in - America, - nell'Amleto, in cui, prima fra le attrici italiane, ottenne, sotto il nero mantello del Principe di Danimarca, un caloroso successo. Ma la fortuna non s'accompagnò che a sbalzi con questa nostra grande attrice, cui la natura aveva dato un carattere forte, fiero, insofferente d'ogni freno, sdegnoso di tutto ciò che non fosse alto, nobile, generoso. Dell'arte, della sua arte, aveva un concetto così elevato che non potè mai sopportare l'invasione sulle scene italiane delle scurrili farse parigine, persuasa come essa era che il teatro dovesse essere soltanto una scuola d'arte morale. Diceva che a recitare uno di quei lavori non l'avrebbero costretta nemmeno per fame. Col procedere degli anni, tra fortune e avversità, Giacinta Pezzana mantenne del resto fede alle sue illusioni e ai suoi ideali giovanili. Nata in un epoca di fermento patriottico, italiana fervente e avida di libertà, attratta fin da gicvinetta dalle teorie mazziniane, dopo aver fatto di Mazzini e di Saffi i suoi idoli, conservò intatta e incorrotta fino agli ultimi anni dell'operosa vecchiaia questa sua fede repubblicana fervida e sincera. Amava il popolo e al popolo soprattutto cercò di dedicare la sua arte. Per queste sue idee la chiamarono "la petroliera", in quanto a quei tempi il petrolio era lo spauracchio della grassa e pavida classe borghese; e la chiamarono "la grande vagabonda", per la sua irrequietezza, per quella sua insofferenza all'altrui dominio, e per quel suo continuo vagabondare attraverso i paesi d'Europa e d'America. Alla vigilia della grande guerra, dopo essere stata per breve tempo nella Compagnia Stabile del Teatro Argentina di Roma, Giacinta Pezzana volle fare, sempre per la sua grande passione al teatro e per il' suo grande amore al popolo, una nuova esperienza, dando vita in Roma ad una "Compagnia romanesca", che doveva avere lo scopo di correggere i brutali costumi del popolo e di creare un teatro dialettale romanesco in cui fosse bandito il coltello. L'iniziativa non ebbe fortuna. La Pezzana ci rimise le poche diecine di migliaia di lire che in tanti anni d'arte aveva saputo raccogliere. La Compagnia non durò a lungo, e con i suoi attori di lì a qualche tempo sorse un altro "teatro romanesco", quello capeggiato da Gastone Monaldi, in cui per anni ed anni, invece, di coltello si fece spreco! La Pezzana aveva allora quasi settant'anni. Le offrirono di tornare in America - dove aveva una figlia e dei nipotini - per un corso di recite straordinarie della Teresa Raquin in Argentina. Accettò, e a Buenos Aires acconsentì anche di recitare il dramma zoliano in lingua spagnuola, con attori argentini. Poi, passata a Montevideo, dove dimorava sua fìg:ia, assunse la direzione di una scuola di recitazione nazionale. Ma non vi rimase a lungo. Voleva morire in patria. Fece ritorno in Italia e andò a rifugiarsi in una sua piccola casa ad Acicastello, presso Catania, dove spese gli ultimi giorni e gli ultimi soldi in opere di bene. E in Acicastello la grande attrice italiana chiuse la sua operosa giornata il 5 novembre 1919. Quasi ottantenne.
MARIO CORSI