Da SCENARIO Num. 8 - Agosto 1941:
- Il primo capitolo dell'avventurosa vita di PETROLINI - La mania di recitare
Autore: Mario Corsi
AI LETTORI
Una Vita di Petrolini, attesa in ltalia, dove è ancor viva la memoria del grande e popolarissimo Attore, sarà anche all'estero di un grande interesse per tutti gli amatori e cultori del teatro. Petrolini, nei suoi ultimi due anni, costretto a vivere lontano dal palcoscenico e dal suo pubblico tanto amato, pensò di scriversela da sè, quasi per compensare, nel modo più degno, gli altri e sè stesso della sua forzata assenza. A questo scopo, ritenendo forse che le forze non gli bastassero, chiese al suo grande amico Mario Corsi la collaborazione per ia stesura. Corsi, che aveva recentemente licenziata per le stampe la vita di Leopoldo Fregoli, altro prodigioso artista popolarissimo e particolarmente caro a Petrolini, si mise con lieta prontezza a disposizione di lui, riservandosi la parte di semplice compilatore, anzi di amanuense: convinto che il libro avrebbe avuto la stessa commossa accogiienza che avrebbe salutato I'autore al suo primo ritorno alla ribalta. Questo ritorno non avvenne: Petrolini, che accolse la morte con un semplice stupore fanciullesco, (che terribile frase, però, la sua ultima: "Dio, quanto si patisce a morire!") ebbe una frase di non meno amara semplicità neil'atto di accingersi all'opera autobiografica: "Le memorie sono una specie di testamento: ci si comincia a pensare alla vigilia del grande viaggio". Vedeva chiaramente avvicinarsi la fine: perciò volle che uscissero in tutta fretta i primi capitoli, che intltolò (amarezza sorridente anche questo titolo) "Un po' per celia e un po' per non morir...". Le bozze se le corresse da sè: ma appena una settimana prima del "grande viaggio". E l'opera sarebbe rimasta interrotta, se il suo primogenito, Oreste, animato di legittimo orgoglio e di profonda devozione, non avesse con minuta diligenza provveduto a raccogliere tutti gli scritti, le lettere, gli appunti, i ricordi autentici paterni, oltre ad un vasto e completo materiale bibliografico: quanto di aneddoti e di saggistico era apparso tra il 1915 e il 1930, di autori italiani e stranieri, sull'arte e sulla vita di Petrolini, da Pirandello a Gordon Craig, da Papini a Romagnoli, da Bontempelli à Simoni, ecc. Un largo cotttributo documentario, che, memore delia volontà paterna, mise a disposizione di Mario Corsi. Cosi è nata questa Vita di Petrolini di cui Scenario inizia oggi la pubblicazione, e che comparirà in seguito raccolta in volume per i tipi di Mondadori. I lettori troveranno in queste "memorie" attinte, senza nessuna giunta, scrupolosamente, da documenti precisi, un Petrolini vivo e molteplice quale fu, uomo ed artisla, e gli piacque di apparire. E, sopratutto, un Petrolini rievocato dal Corsi neila sua autentica realtà artistica e umana. Poichè il Corsi si è valso, fino a dove è stato possibile, prevalentemente e con scrupolosa fedeltà, dalle Sue stesse parole prima, e poi di tutte le testimonianze di quanti vissero con Lui in intimilà, e di quanto fu scritto di Lui, in vita e morte, dai più autorevoli critici e biografi: sicchè guesta Vita riuscirà, oltre a tutto, anche una fonte di dati bibliografici esaurienti per quanti in seguito volesselo accingerci ad una valutazione citica e, in genere, allo studio dell'arte di Petrolini: alta e indimenticabile. SCENARIO
LA MANIA DI RECITARE
Via Giulia - Il fasclno della strada - Fare il teatro - Colpevole di mancato omicidio - Il riformatorio dl Bosco Marengo - Una recila e una rivolta - Processo in cella - La camicia di forza e le manette - L'Arma Benemerita - La Via Crucls dei riformatori - In libertà perché elemento pericoloso - La fatale calamita - L'avvenlura di Campagnano - Una grande deluslone - La prima scrittura - "Buffone"!
C'è a Roma una strada più romana di tutte: Via Giulia, che si vuole fosse un tempo il Corso della città e, comunque, ebbe importanza grandissima, sia per i suoi patrizi palazzi, alcuni dei quali appartennero a fiorentini e senesi molto ricchi; sia perché nell'età di mezzo in questa strada, ch'era lunga e dritta, si facevano le corse dei barberi. A integrare i tasti della romanissima strada contribuì anche l'arte drammatica, poiché in essa un vasto edificio, costruito da Papa Giulio II su progetti del Bramante, per installarvi il tribunale, servì poi ai drammi della scena, anzichè a quelli della giustizia, e divenne un teatro famoso: il Tordinona. Proprio in fondo a Via Giulia, in una vecchia modesta casa che faceva angolo col Vicolo del Grancio, nacque il 13 gennaio 1886 Ettore Petrolini. I genitori, Luigi Petrolini e Anna Maria Antonelli, erano entrambi romani. Il padre, maestro d'arte, aveva un'officina di fabbro al pianterreno della casa ereditata da chi lo aveva messo al mondo e gli aveva insegnato il mestiere. In Via Giulia Ettore trascorse, coi genitori e due fratelli e due sorelle, i primi anni della fanciullezza. Ma nel '90 la famiglia dovette abbandonare la casa, soggetta a esproprio e a demolizione per i lavori in corso del nuovo Lungotevere, davanti a Castel Sant'Angelo; e andò a trasferirsi fuori Porta San Giovanni, dove proprio allora cominciavano a costruirsi le prime abitazioni. A sei anni Ettore fu mandato a scuola, alla "Vittorino da Feltre", presso il Colosseo. Ma per quanto precoce e di vivacissimo ingegno, fin da principio non diede saggi di particolare attitudine allo studio e tantomeno alla disciplina. "Non ero davvero un fanciullo prodigio - confesserà più tardi. - Io ho studiato poco, ma ho visto molto. Quelle poche ore, quei barlumi di tempo che ho consacrato alla scuola, non servirono a farmi apprendere nulla. Sono certo, anzi, che il maestro abbia appreso qualche cosa da me, poiché certamente, come tutti i ragazzi discoli, avrò fatto qualche cosa di inatteso, di diverso, che avrà sicuramente colpito la mentalità semplice del maestro elementare". L'inatteso e il diverso consistevano nel fare arrabbiare i maestri e nel combinare ogni sorta di dispetti ai compagni, sicché venne il giorno in cui il direttore della "Vittorino da Feltre" mandò a chiamare la madre del ragazzo e le tenne un discorso che finiva così: - La miglior cosa che possiate fare, è di tenervelo a casa. Non ha voglia di studiare e non concluderà mai nulla. Qui non se ne può proprio più. Tenetevelo a casa...
Tenerselo a casa: una parola! Ci provò, la povera donna; ma con scarso profitto. Il ragazzo non amava che la strada. La strada lo attraeva irresistibilmente. II padre, dedito al proprio mestiere di fabbro e per natura apatico, indifferente a tutto quello che accadeva in casa, lasciava fare; e la madre, buona donna, avendo da tirar su, da sola, cinque figliuoli, e da pensare, per quanto poteva, alla loro educazione, non aveva davvero la forza da imporre un freno allo spirito irrequieto e vagabondo del ragazzo. Nemmeno legato, sarebbe riuscita a tenerlo in casa! Gli sgusciava di mano come un'anguilla, e via, con altri scavezzacolli della stessa risma, all'Orto Botanico, presso il Colosseo, ch'era il campo prediletto dei suoi divertimenti, e di dove tornava spesso, a sera, malconcio, pieno di graffi, con gli occhi pesti e gli abiti a brandelli: segno manifesto di singolari tenzoni, e non tutte vittoriose. Piaceva menar le mani, a Ettore, e quando si trovava davanti a offese o soprusi, giustizia voleva farsela da sé, costasse quello che costasse. Ma oltre a menar le mani, e forse più, gli piaceva esibirsi: nei modi più impensati e stravaganti. Per esempio, di Carnevale, portava via di casa degli indumenti femminili, degli stracci, e con questi si mascherava bizzarramente; e in ogni stagione provava una gioia immensa a dare spettacolo di sè per le vie di Roma. A dieci anni, sgattaiolava di casa con una sedia e, una volta sulla strada o in una piazza, saliva sopra quella mobile e improvvisata tribuna e cominciava a declamare tutto quello che gli veniva in mente, pur di raccogliere intorno un certo pubblico di curiosi. La finzione era la sua follia. Il teatro, che non conosceva ancora, lo seduceva inconsciamente e irresistibilmente. Questi furono i primi saggi di recitazione di Ettore Petrolini. Recitare! Gli pareva non ci fosse aì mondo cosa più bella e più divertente. A undici anni - lo racconterà più tardi - se vedeva un funerale, immediatamente gli si accodava. Poi, piano piano s'intrufolava fino ad essere vicino ai parenti del morto, e assumeva un'aria afflitta, e fingeva di commuoversi fino alle lacrime, per farsi compatire dalla gente.
- Povero figlio! - Quanto mi fa pena... - Chi sarà! - Sarà un nipote... - No, dev'essere il figlio... - Ma non aveva figli. - Allora sarà il figlio del portiere di casa... - Non credo. Guardalo come piange... - Ma chi è! Sarà il figlio di sua sorella... - Sarà il figlio della serva... - Tu lo conosci? Ma di chi è figlio? - Sarà il figlio della colpa.
Tutte queste cose forse non le dicevano; ma Petrolini s'immaginava che le dicessero, e ne provava un gusto matto. E perchè faceva tutto questo? Semplicissimo: per fare il teatro. Per fare il teatro il ragazzo ne pensava di ogni genere. Ora si fingeva, e riusciva a farsi credere, ammalato. Un'altra volta si infilava la giacca a rovescio, se n'andava presso l'Arco di Tito e Iì cominciava a pronunciare parole disarticolate, incomprensibili, illudendosi d'essere scambiato per un forestiero. Oppure, si caricava sulle spalle un'enorme cassa vuota e se n'andava curvo e barcollante per la strada, col volto atteggiato a spasimo, in modo che i passanti lo compatissero e avessero aspre parole di biasimo per chi aveva messo sulle deboli spalle di un povero ragazzo un simile peso. "Per finzione? Per pazzia? Per scemenza! - si domanda Petrolini. - Niente di tutto ciò. Vi ripeto: facevo il teatro. E il mio grande successo era quando riuscivo perfettamente a illudere la gente, facendo credere ciò che non era. Facevo la parte, studiavo, recitavo".
Ma in lui c'era, spiccatissimo, anche lo spirito d'avventura. A undici anni, un bel giorno, si mise un paio di scarpe nuove di zecca e scappò di casa. Rimase fuori, con due amici del Colosseo, quattro giorni e quattro notti. I tre vagabondi forse non avevano nemmeno una mèta. Raggiunsero i Castelli Romani, si spinsero fino ad una cittadina del Lazio, e poi, affamati, laceri, presero la ingloriosa strada del ritorno. Una sera la madre di Ettore, che aveva ricercato il figliolo per quattro giorni, disperatamente, in ogni dove, persino nei commissariati e negli ospedali, affacciatasi alla finestra, scorse, alla tremolante luce d'un lampione a gas, un ragazzo rannicchiato e immobile sopra un gradino della porta di casa. La poveretta discese in strada: sul gradino c'era proprio il figliolo, coi piedi scalzi e sanguinolenti. Dormiva. Lo prese sulle braccia e lo portò di sopra. Solo I'indomani apprese perchè era tornato senza scarpe: le aveva donate ad uno dei suoi compagni di viaggio che stava peggio di lui, ed era tornato a Roma scalzo!
Sempre in quegli anni capitò a Ettore Petrolini un'avventura, ricordata in un capitolo dell'ultimo suo libro Un po' per celia e un po' per non, morir... (Angelo Signorelli, editore, Roma, 1936). Val la pena di riportarla con le parole del protagonista. Ettore aveva tredici anni ed era, come si suol dire, "un poco di buono", sicché finì in un riformatorio. Ma fu, questa, un'avventura veramente immeritata. Egli stava giocando, con altri ragazzi, all'Orto Botanico. Nella comitiva c'era un certo Attilietto, coetaneo di Ettore, che ad un certo momento s'impadronisce prepotentemte di un bastone - o, meglio, di un mezzo manico di scopa, indispensabile per il nobile gioco della nizza - appartenente ad un altro compagno. Ne deriva una contesa, finita naturalmente a botte. Ettore si getta in mezzo alla mischia, strappa il bastone dalle mani di Attilietto e lo lancia per aria con rabbia e vioienza, mandandolo a finire sopra il ramo d'un albero. Pianti, strilli di Attilietto che si butta per terra come preso da un attacco epilettico. Petrolini, un po' per commozione, e un po' perchè salire sulle piante è tra i suoi passatempi prediletti, s'arrampica come uno scoiattolo sull'albero; ma, quando sta per raggiungere il ramo, il bastone scivola e va a cadere sul capo del suo legittimo proprietario. Nuovi strilli e sangue. Accorre gente. Il ragazzo, svenuto, viene posto sopra una carrozzella e avviato all'ospedale, mentre Petrolini si dà ad una pazza fuga. Forse per suggestionarsi d'essere il colpevole: I'autore di un mancato omicidio. L'indomani si presentano a casa Petrolini due guardie per arrestare il ragazzo. Disperazione della madre. Il padre nemmeno questa volta interviene: se Ettore ha fatto del male, paghi! Interviene, invece, uno zio, uomo di princìpi rigidi; ma per stigmatizzare severamente il nipote e proporre di rinchiuderlo immediatamente in un riformatorio. L'idea appare eccellente, o comunque necessaria, a quasi tutti i familiari, padre compreso; ed Ettore viene avviato al riformatorio di Bosco Marengo, presso Alessandria. Petrolini ne conserverà un ricordo dolorcso e incancellabile, e gli farà scrivere, nel 1926, - dopo una visita allo stesso istituto di Bosco Marengo, molto cambiato negli ordinamenti e nei sistemi grazie al Regime - questa amarissima lettera, diretta al nuovo direttore di quel rinnovato riformatorio:
"Caro Direttore, ... La visita a codesto riformatorio dopo venticinque anni mi ha lasciato un'impressione difficile a chiarire. È tutta una girandola dì cose che mi turbinano nel cervelìo con una visione, quasi direi irreale. per tutto ciò che mi accadde da ragazzo. Certo è che venticinque anni or sono la permanenza in codesto luogo mi fu utile - ma non utile come potrebbe esserlo a quei corrigendi che vi si trovano ora -: utile nel senso che io penso, cioè, che I'avversità sia utile. Sono convinto che per avere qualche soddisfazione nella vita è necessario essere stato un disgraziato! Quella sventura della mia fanciullezza ha disposto meglio I'animo mio e indubbiamente ha rinvigorito il mio carattere... "Il direttore di quell'epoca (non lo nomino per precauzione) mi ficcò in cella - in una di quelle celle... Avevo tredici anni e mezzo, e mi ci ficcò appena arrivato. Per farmi meditare, diceva lui! Io, a quel tempo, non meditai, nè capii; ma oggi potrei gridare in faccia a Dio e agli uomini che fu una vera indegnità. "Uscito cella, dopo otto giorni di segregazione, passai al laboratorio dei sarti, dove tutto è grigio, dove tutto è del colore del cattivo tempo. Se è nella Sua possibilità, La prego di farci dare qualche pennellata di rosso, di verde o di turchino; per chi ha un po' di sensibilità quel colore può influire sull'umore.., A me fa questo effetto. Detesto il plumbeo, il cenere: le stesse parole sono sinonimi di cose lugubri! In quel laboratorio rimasi, non ricorrlo bene, due o quattro giorni; nel frattempo nel riformatorio si organizzava una recita, nel teatrino che Lei fu tanto gentile di farmi rivedere. Naturalmente, io fui subito prescelto per fare la parte del buffo in una scialba farsetta che s'intitolava Franconi e Tìmiducci, nella quale, si capisce, io facevo la parte di Franconi. Fu un successo. Successo che si trasformò in un disastro: I'esito fu strepitoso e di conseguenza ne seguì una gazzarra intorno a me: soprannomi, risate mal represse, lazzi, sberleffi e tutto in sordina, vale a dire... più clamoroso e rumoroso. "Questa improvvisa popolarità mi fruttò la accusa di complice in una rivolta: rivolta che già covava nel riformatorio antecedentemente al mio ingresso. Ebbi un bel dire che non sapevo nulla di nulla. Non fui creduto. Una guardia, di cui ricordo il nome - Monsù Savio - mi accusò senza misericordia. (Oggi definisco il Savio uno zotico cattivo e presuntuoso, un ignorante umiliato da quel tantino di intelligenza che avevo anche allora). Egli affermò che io avevo sobillato e complottato fin dal giorno del mio ingresso in quelle geniali uccelliere... cubicoli!.. " Della rivolta io non sapevo proprio nulla; ma il mio stupore vero fu scambiato per simulazione, e così ritrovai in quelle celle e, questa volta, al piano di sotto. Il processo mi venne fatto nella cella stessa. Se non erro, ii capo guardia rappresentava l'accusa, il direttore il presidente, e il cappellano la difesa. (Il cappellano difensore disse che io facevo bene il commediante!). Seppi poi che avrebbe dovuto esserci anche il medico; ma non venne. Tanto di guadagnato, perchè non avrebbe curato certo l'anima del ragazzo che stava dentro il discolo... Avrebbe curato il discolo... e allora? Basta, in quel processo io, alle interrogazioni rispondevo che non sapevo nulla: piansi, supplicai, implorai; ma fu peggio. Sentenza: un mese di rigore; e i primi dieci giorni a pane ed acqua. "Ricordo che dopo il processo rimasi come inebetito per parecchie ore; poi m'invase I'esasperazione e cominciai a urlare come un forsennato. I miei vicini compagni di cella mi imitarono tutti: sciopero completo della logica e del buon senso; il vero trionfo dell'incoscienza! Oggi mi spiego il fenomeno di quella ribellione: volevo rendermi colpevole per riuscire a tollerare, a rassegnarmi a subire la ingiusta punizione... Infine, fiaccato, esaurito dagli urli, dallo sgolamento, dal pianto e anche dal dolore, ebbi qualche ora di tregua; ma la notte ricominciai per il primo con dei calci alla porta, rottura del boccale, poi ancora strepiti e urli, invocando mia madre, la libertà, la giustizia e tutte le altre cose impossibili: imprecai rabbiosamente contro ii direttore e la guardia Savio. "Ah, quel direttore come lo rivedo bene! Figura piatta, senza sorriso, faccia di acciaio ossidato: fili di fil di ferro al mento; me lo ricordo come si ricorda l'orco. "E in quella notte di bufera venne proprio lui, il direttore! Mi sembra di rivedere (dallo spioncino) quel taglietto di occhi. Terribile! Una porta con gli occhi! "Fece aprire, e me lo vidi davanti con due secondini che avevano in mano un lugubre lanternino. Credo che ebbi paura. Urlai... urlai e urlai; quando si ha paura si urla più che si può, per non rimanere soli. Probabilmente simulavo la pazzia, forse senza volerlo (sono riflessioni che faccio ora); ma quel direttore trovò opportuno farmi mettere una camicia di tela da vele con maniche lunghissime, che all'estremità avevano cucita una corda; e così, messemi le braccia conserte, avvoltolarono quella corda sui miei tredici anni e mezzo di carne. Il direttore, ad operazione compiuta, mi disse: - Così ti si calmeranno i nervi, commediante! "Avevo letto sul muro della mia cella uno scritto a grafito con questa sentenza: CONTRO LA FORZA LA RAGION NON BASTA, VINCE LA FORZA E LA RAGION CONTRASTA. E così, appena mi vidi legato, la fischiai con spavalderia in faccia al direttore, che mi rispose con un forte schiaffone. Risposi con I'istinto, e come potevo... Dopo di ciò mi acquietai, anche perchè la guardia delle celle di punizione - benedetta sia - commossa da un'accorata crisi di pianto che ebbi appena uscito il direttore, venne ad allentarmi la corda; ma non volutamente, lo fece in tal modo che poi riuscii, da solo, a sciogliermi completamente. Non ricordo nè la fisionomia nè il nome di quella guardia, ma deve essere stata un'anima buona... e tutto il buono si dimentica facilmente. (La guardia Savio, invece, I'ho bene in mente e la riconoscerei anche oggi). "Rimasi un po' avvilito come chi si sente colpevole, forse per il gesto umano di quella buona guardia. Trascorse una quindicina di giorni e me ne stavo rassegnato nel grigiore di quella cella, quando una mattina annunziarono a me e ad altri due corrigendi (ritenuri, quanto me, pericolosi) di tenerci pronti perchè nel pomeriggio saremmo parriti per Forlì, scortati dai carabinieri. "Incredibile, ma vero: ci misero le manette! E con una lunga catena ci unirono!.. Io ero quasi contento, perchè al passaggio nelle stazioni destavamo uno stupore tale, da rasentare il successo. I miei due compagni capivano poco; io mi davo un'aria afflitta, m'intonavo perfettamente alla situazione; mi sentivo e mi vedevo grande attore di una commedia di cui mi avevano affidata la parte principale. Quella passeggiata fu per me un'esibizione da palcoscenico... Cercavo di apparire affranto, triste, vecchio, malato... Mi sentivo il forzato, I'ergastolano. Il protagonista sventurato di un grande romanzo. Perchè non fare quella parte in quella interessante commedia? Già sentivo il teatro... Il cappellano, questa volta, avrebbe avuto ragione. "E sono certo che i carabinieri si vergognavano di accompagnarci. Ricordo che facevano il possibile per sottrarci alla curiosità della gente che si divertiva a compatirci: - Poveri figli! Che avranno fatto? Che cosa potevamo aver fatto? In tre non si arrivava a quarantacinque anni! "I carabinieri ci trattarono più che umanamente; anzi, a loro spese ci procurarono qualche bibita e ogni volta che si fermava il treno, un carabiniere scendeva e ritornava sempre con qualche cosa per noi: mele, caramelle, biscotti... Adorabile carabiniere! Ora mi spiego la costante e immutata venerazione che ho per i carabinieri, e perchè si chiamino I'Arma Benemerita. "Giungemmo a Forlì: casa di rigore! Provvisoriamente fummo chiusi nel Maschio. Una guardia, nell'introdurmi in una tomba, mi disse che era questione di poche ore; poi saremmo passati nell'attiguo cellulare. Infatti fu così. "Il direttore di quel penitenziario fu per noi una vera provvidenza. Era un giovane amabilissimo, che prese a cuore la nostra cattiva ventura: capì che quei due metri uggiosi di cella non avrebbero portato nessun vantaggio alla nostra riabilitazione, e non volle confondere tre ragazzi discoli con i detenuti che si trovavano in quel luogo a scontare ben altri delitti. Egli faceva dunque prolungare la nostra passeggiata all'aria di due ore Ia mattina e tre ore nel pomeriggio, mentre, come di regolamento, doveva essere di un'ora o due al giorno. "Dopo una settimana io e i miei due compagni (Innocenti e Costagliola, un romano ed un napoletano) fummo chiamati dal direttore che, dopo un'amorevole paternale, ci disse che la mattina dopo saremmo partiti per S. Maria Capua Vetere: Riformatorio regolare. "Fu una cattiva notizia, perchè meglio di lì non si poteva stare. "Partimmo avvilitissimi, prevedendo di ritornare in un riformatorio tipo Bosco Marengo. Fu l'opposto: a Santa Maria fummo ricevuti con quella indifferenza che, se non altro, allontana il sentimento di paura. Non ci presentarono neanche al direttore e rimanemmo uniti senza lo spaventoso isolamento, senza farci fare la "meditazione"! Se sapessero che risultati danno quelle meditazioni torzate... Un cervello che pensa finisce per odiare. "Arrivammo verso mezzogiorno: fummo subito ammessi al refettorio, dove già si trovavano altri ragazzi, E lì, domande, intonazioni misteriose: "- Che cosa hai fatto? - Di dove vieni? - Qui si sta bene!.. - Hai una cicca? - Il direttore è buono. - Vedi quel superiore! È mezzo matto: dà i nocchini in testa, ma non fa rapporti... "Infatti quel superiore era veranrente buono: mi si avvicinò e confidenzialmente mi diede uno scappellotto, che mi fece I'effetto di una amorevole carezza. Era un romagnolo: si chiamava Mantovani; ricordo il suo norne perchè in quel riformatorio, era simpaticamente popolare. Mi domandò: - Che mestiere fai? "Risposi che non avevo avuro il tempo d'imparare nulla e chiesi di entrare nell'officina dei tipografi. Egli stesso s'incaricò della mia richiesta e fui esaudito. Il pomeriggio di quello stesso giorno ero in tipografia a levare i fogli stampati (erano bollette del dazio e consumo) dalla macchina. "Dopo un paio di giorni mi chiamò il direttore (era un tipo di uomo presente-assente) e mi disse con disinvoltura, come se parlasse ad una vecchia conoscenza: - Come ti chiami? Te la sei cavata con poco... - Poi, con mia grande meraviglia, aggiunse che Ia mattina dopo sarei stato libero. Mi avrebbe munito di un foglio di via per rimandarmi a Roma, e mi congedò con la racconrandazione: - Bada di far giudizio! "Seppi poi che il direttore era stato mandato lì da poco e che probabiimente, dato che io venivo da una casa di rigore e con chissà quali informazioni da Bosco Marengo, volendo la tranquillità del riformatorio, mi mandava via per liberarsi di un elemento pericoloso. Comunque sia, posso dire di averla scampata bella, perchè con la mia sensibilità e un temperamento come il mio le cose potevano andare molto peggio".
Che questa dolorosa esperienza incidesse profondamente sul carattere e sulle abitudini di Ettore Perrolini, sarebbe forse azzardato affermare. Tornato a Roma. il ragazzo riprese la vita di prima, più che mai irrequieto, più che mai attratto dalla strada, più che mai affascinato dall'idea di recitare. Questa sua spiccata tendenza a stare nella strada, a dar saggi non richiesti di bravura istrionica e a vivere in uno stato di assoluta indipendenza accrebbe ancora di più I'allarme nel parentato. Ma dato che sarebbe stato più facile verniciare a nuovo la luna che convertire il ribelle, il padre finì per disinteressarsene, come sempre del resto aveva fatto; la madre si chiuse in un'accorata rassegnazione, e solo rimase lo zio autoritario a protestare, finchè un giorno dichiarò perentoriamente di non riconoscere più come congiunto quel suo disgraziatissimo nipote. Ma tutto questo non turbò affatto il giovanetto che, più che mai deciso ad entrare in arte, frequentava assiduamente i piccoli teatri di varietà della capitale e studiava di quel repertorio le macchiette più popolari. Non solo: convinto di possedere tutti i requisiti per riportare in quel genere il suo bravo successo, dava la caccia agli agenti teatrali, con la speranza che un giorno o l'altro gli avrebbero dischiuso la porticina d'un palcoscenico. Il teatro a ferro di cavallo era la sua fatale calamita: fors'anco perchè in esso Petrolini intravedeva un "dolce far niente", un modo di diverrirsi senza troppa fatica. Ma gli agenti a cui si presentava lo trovavano troppo giovane e, chi più chi meno, si mostravano dubbiosi sulle sue risorse comiche. Finchè, un giorno, uno di essi, certo Giulio Fabi, dopo averlo ascoltato con una certa compassata benevolenza, gli chiese che precisasse quello che effettivamente sapeva fare. Petrolini non ebbe un attimo di esitazione. Rispose preciso e laconico - Il macchiettista. L'agente lo sbirciò di sottocchi. - Sei un po' giovane... - Meglio cominciare presto, no? L'altro non volle pronunciarsi. Chiese, invece: - Hai un nome d'arte? Petrolini stava per rispondere no, quando l'immagine dello zio autoritario gli s'affacciò alla mente. Quell'uomo alto e burbero nell'apparerlza e nei modi, tutto d'un pezzo, rigido nei suoi princìpi morali e politici, parco di sorrisi e di parole, che lasciava cadere dalla bocca come sentenze, proprio pochi giorni prima, avendo appreso che il nipote vagheggiava dedicarsi al teatro, aveva esclamato: "Meglio morto che sulle tavole di un palcoscenico!" Che avrebbe detto e fatto, il terribile zio, se avesse letto di lì a qualche giorno sui manifesti di un caffè-concerto cittadino il nome onorato dei Petrolini? Non c'era che la scappatoia di un nome d'arte: e poi lo zio lo considerasse pure la pecora nera della famiglia e lo maledicesse... Rispose: - Il mio nome d'arte è Loris. (Era il nome: d'un parente materno). Sta bene. Allora, portami quattro scudi di mediazione e io ti faccio entrare immediatamente nella Compagnia di Angelo Tabanelli, detto il Panzone, che in questo momento agisce a Campagnano... Ettore corse a casa, circuì con un monte di chiacchiere la madre, fino a ottener da lei una trentina di lire; portò i quattro scudi al Fabi e, provvisto di una sua commendatizia, caricò sulla diligenza un vecchio baule con quel po' di corredo scenico che era riuscito a mettere insieme, e via alla volta di Campagnano. Questa fu la sua seconda fuga da casa: stavolta lo sospingeva avanti il buon diavolo socratico che aveva in petto. Il suo destino era segnato: avrebbe potuto dire, come Domenico Bruni, che fu comico famoso sulla fine del XVI secolo: "Io ci sono entrato, e basta in questa professione romperci un paio di scarpe per non se ne levar mai più". Petrolini, come vedremo, ce le ruppe subito, le scarpe. Ma sull'avventura di Campagnano, che segnò il primo ingresso del nostro nel teatro, lascìamo raccontàre a Petrolini stesso:
"Il teatro di Campagnano era un vecchio granaio municipale dove, la sera stessa delI'arrivo, io debuttai con la macchietta Il bell'Arturo. Al ritornello misi un piede sulla estremità di una tavola dell'improvvisato palcoscenico, fatto di tavolacce male inchiodate e che poggiavano su due cavalletti. Il mio peso fece sollevare un'asse e andai a finire di sotto, con una elegantissima lussazione a un piede. Il pubblico, regolarmente, si divertì un mondo e chiese il bis, mentre io piangevo dal dolore e dalla rabbia. Fu I'inizio del mio destino. Mi accorsi che ero veramente votato all'arte comica. Gli attori della compagnia - per una volta tanto d'accordo col pubblico - risero anch'essi a crepapelle. Ma la pelle non si crepò; e io, solo, malconcio, dopo lo spettacolo me ne andai a casa: una cameretta dove I'odorino di muffa giocava a nisconnarella con una bella puzzetta di stalla che veniva su dal cortile. Di buono non c'era che il silenzio; cosicchè mi consigliai con lui. Mi venne subito un discreto odio per quel pubblico, per i miei compagni, per I'impresario e, sopratutto, per i ritornelli e le introduzioni musicali e cretine che usavano nel varietà di quelllepoca. "Ogni sera, Angelo Tabanelli portava i comici - otto o dieci - a mangiare all'osteria di Panzaliscia e pagava per tutti, tranne che per me. Io pagavo il mio conto; ma, essendo finalmente rimasto con tre lirette in tasca, mi misi a pensare: - Ho fatto un buon successo; sono vestito meglio di tutti; perchè non mi parla mai della paga? Forse vorrà darmi qualche cosa in più di quello che dà agli altri, e aspetterà il momento in cui rimarremo a quattr'occhi, per non mortificare i miei compagni... Senonchè, agli sgoccioli delle tre lire, mi allontanai ed affrontai il capocomico con molta disinvoltura - A me, poi, quando me paga? - Il Sor Angelo, con gli occhi strabici, ringhiò: - Pagaaare? Pagare cosa? Ma che sei scemo? Ma chi t'ha cercato? Non vedi che qui non si va avanti? Io non ho più soldi!... anzi, contavo su te!.. "E così dicendo, tirò fuori quella indimenticabile cartolina che aveva preceduto ed annunciato il mio arrivo a Campagnano: "Carissimo Tabanelli, tra qualche giorno arriverà il comico Ettore Loris (primo ed unico mio nome di battaglia), un fanaticone per lavorare sul teatro. Per quello che ti costerà, Io puoi pure scrìtturare. Non solo non gli darai nulla, ma all'occasione (che certamente non ti mancherà) potrà anche dare un aiuto alla Compagnia, perchè è figlio di gente che ha qualche soldarello. Ricordatì di me. Voglimi bene . Tuo Giulio Fabi". Fu un colpo di mazza sulla testa di Petrolini. E dire che s'era illuso d'esser considerato già un artista! Sentì confusamente il Tabanelli che soggiungeva: "- Anzi, io avevo pensato di pregarti di scrivere o telegrafare a casa tua per avere un centinaìo di lire, che t'avrei restituito a Nepi, la nuova piazza, dove faremo, certamente, affaroni..." Avrebbe voluto piangere, o prendere il capocomlco a pugni: ma non fece nè l'una nè l'altra cosa. "Giuro che avrei rubato, o fatto di peggio per fornire le cento lire al Tabanelli, se almeno mi avesse esposto le cose diversamente, se si fosse rammentato che io ero un comico, o se evesse capito che io mi illudevo di esserlo". Non disse nulla e, insalutato ospite, fatto caricare sulla diligenza il proprio baule - sotto assegno, per mancanza di fondi, - a piedi fece ritorno a Roma, con molto amaro in cuore e lo stomaco spaventosamente vuoto. Fu appunto durante quello sconsolato viaggio di figliol prodigo che ruppe, nella nuova professione, quel tal paio di scarpe di cui faceva menzione il suo lontano antenato Domenico Bruni. Ma, strada facendo, ci guadagnò utili ammaestramenti da parte di un suo compagno di fuga e di sventura: Totonno Lombardo, che sosteneva, nella compagnia di Angelo Tabanelli, la maschera di Pulcinella. Il buon amico napoletano non fece che raccontargli di Pulcinella celebri: di Cammarano, di Petito, di De Martino e del piccolo Teatro Mercadante di Foria. "Fra la stanchezza, la fame e le scarpe piene di piedi, nell'intontimento mi balenava una girandola di maschere nere, di coppoloni e di nasoni grifagni e adunchi da uccello rapace come il mio. E Pulcinella mi si piantò nella testa... Totonno parlava, parlava senza posa e Petrolini lo ascoltava a bocca aperta, bevendone le parole che gli dischiudevano un mondo fantastico e sognato. Soltanto, soffriva le pene dell'inferno perchè aveva un paio di scarpe di pelle lucida piuttosto strette e non adatte davvero per quella... passeggiata. A un certo punto provò a levarsele: ma fu peggio, perchè la strada era tutt'altro che levigata e lui non era abituato a camminare scalzo. "Avevo I'impressione di camminare sopra l'ossì de persiche. Perciò dovetti rinfilarmi le scarpe dopo un chilometro a piedi nudi. Quale inquisizion ! Non fiatai più fino a Roma".
Appena a casa, si lasciò cadere, stanco morto, sul letto. Inutilmente la madre e le soreile lo interrogarono: non volle aprir bocca, e per tutta la notte, in preda alla febbre, non fece che delirare. Nel delirio vedeva distintamente I'agente Fabi, il quale gli ripeteva le parole dette al momento della partenza per Campagnano: "Tu farai molta strada!". Sì, di strada, e a piedi, ne aveva fatta. Lo attestavano le sue scarpe rotte e i suoi miserandi piedi. Ma I'indomani Petrolini non mise tempo in mezzo: si precipitò a cercare il Fabi, per regolare con lui il conto. Lo rintracciò al Gambrinus, a Piazza dei Cinquecento. L'agente capì subito che il giovanotto aveva intenzioni tutt'altro che pacifiche, e quasi non gli diede il tempo di aprir bocca. - Debutterai qui! - disse. Furono due parole magiche. Tutta I'ira di Ettore sbollì di colpo.
- Sì, sì, debutterai qui, al Gambrinus, come buffo macchiettista. Ti farò dare sei lire per sera, con la mediazione per me del dieci per cento... Sei contento? Petrolini non sapeva se dovesse credergli. Si stropicciò gli occhi per essere certo che non gli durava il delirio della notte. Poi, chiese: - Per quanti giorni? - Quindici, e se andrai benino, ti tarò riconfermare per altri cinque. - Ripeté - Sei contento? Se era contento! Debuttare a Roma, al Gambrinus! Gli pareva proprio un sogno. Temeva soltanto di doversi risvegliare da un momento all'altro. Ma quel giorno stesso ebbe nelle mani il suo primo contratto: conservato poi pe r tanti anni, gelosamente. Vale la pena di riportarlo qui, senza mutarne una parola e senza correggerne gli strafalcioni. Diceva testualmente così:
"Con la presente scrittura privata, da essere considerata come pubblico atto e strettamente osservato ai termini di legge tra il sig. Ettore Petrolini ed il sig. O.Stern, proprietario del concerto Gambrinus si è convenuto quanto segue: "Art. 1. - Si scrittura il suddetto artista per prestare Ia sua opera nella qualità di buffo e duettista. "Art. 2. - Questa scrittura avrà la durata di giorni quindici, cominciando il 16 aprile 1903 e terminando il 30, salvo riconferma. "Art. 3. - Come compenso è stabilita la paga di lire 6 giornaliere, pagabile a cinquine posticipate, obbligandosi detto artista di eseguire il suo numero a solo e di fare i duetti con qualunque artista che la Direzione gli assegnerà. "Art. 4. - L'artista riconosce che il contratto è stato fatto a mezzo del sig. Fabi, al quale s'impegnerà di pagare il dieci per cento per tutto il tempo indicato ed anche per tutte le riconferme e rinnovamenti. Tale commissione obbliga ritirarla la Direzione, rendendosene responsabile, rimettendogiiela all'interessato. "Art. 5. - L'artista si obbliga dal giorno della firma di questo contratto di non lavorare in alcun altro stabilimento della cirtà, sia anche gratuitamente. "Art. 6. - La Direzione si riserva il diritto di rescindere il presente contratto nelle tre prime rappresentazioni, quando l'artista non corrisponda agli impegni assunti o per disapprovazione del pubblico. "Art. 7. - La sospensione del lavoro per qualsivoglia causa da parte dell'artista sospende il pagamento e risolve il contratto in suo danno. Nel solo caso di malattia la risoluzione avverrà dopo passati i cinque giorni e sempre che la Direzione ne sia stata avvisata prima di cominciare lo spettacolo per iscritto. La paga però sarà sempre sospesa. "Art. 8. - Mancando I'artista di rispetto al pubblico e alla Direzione, il presente contratto resterà immediatamente risoluto. "Art. 9. - In caso di forza maggiore, come epidemie, incendi, urgenti riparazioni, pubbliche dimostrazioni, proibizioni per ordine superiore, ecc. la presente scrittura resta risoluta. "Art. 10. - L'artista si obbliga di assoggettarsi a tutti gli usi e regole dello Stabilimento e di trovarsi per l'ora delle prove il giorno del debutto. "Art. 11. - Gli artisti devono confermare il debutto alla Direzione 10 giorni prima, trovandosi in ltalia, con lettera raccomandata, dall'estero 15 giorni. "Qualunque mancanza di uno dei soprascritti patti darà luogo alla risoluzione del controtto in danno dell'inadempiente, che si obbliga fin d'ora a pagare in contanti, in transazione di danni, una penale di lire cinquanta.. "Il presente contratto è fatto in doppio ed in buona fede firmato dalle parti dopo averne presa conoscienza. "Fatto a Roma il 16 aprile 1903 sotto la responsabilità dei contrattanti. L'Artista: f.to Ettore Petrolini - p. il Proprietario: f.to sig. O.Stern - L'Agente teatrale: f.to Giulio Fabi". Nel contratto è ancora visibile una cancellatura, all'articolo 1, precisamente là dove è detto a quale titolo Ettore Petrolini viene assunto al Gambrinus. La prima dicitura diceva: per prestare la sua opera nella qualità di buffone e duettista"; corretta poi: "per prestare la sua opera nella qualità di buffo e duettista".
Una piccola variante, una sfumatura, un pentimento in chi redasse il contratto. Sicuramente però, Petrolini non s'offese del primo titolo conferitogli dal modesto e rozzo impresario romano. Inconsapevolmente, forse, fu proprio quest'epiteto di buffone a indicargli Ia strada che avrebbe poi percorso, Con una parola sola quell'impresario gli restituiva la nobiltà della prosapia, antica di secoÌi. In quel buffone c'era il grande accento del comico italiano, la sua mimica, il suo gesto, la sua ìntelligenza.
MARIO CORSI
Nelle fotografie dell'articolo: 1) Petrolini in Nerone 2) Una maschera di 2000 anni fa 3) I genitori: Luigi e Anna Maria Antonelli 4) Petrolini a 4 mesi 5) Via Giulia a fine Ottocento 6) L'Orto Botanico presso il Colosseo 7) Il Riformatorio di Bosco Marengo 8) Il primo contratto 9) Petrolini a 19 anni 10) Una scena de "La procura" rappresentata dal Teatro Sperimentale di Firenze