UNO E DUE: MARIA MELATO
Di Ferdinando Palmieri
Accadde questo: che alle recite di Maria Melato, gli spettatori più giovani siamo noi quarantenni. Noi siamo, o Maria, gli ultimi fedeli: noi che eravamo fanciulli al tempo delle sartine singhiozzanti sui mesti casi della Marcia Nuziale, al tempo del lancio dei fiori, dopo l'ultimo atto della Falena, già dai loggioni e su dalle platee; e voi, Maria, guardavate con stupefatta umiltà il vostro pubblico estasiato, il quale vi acclamava anche per la grazia disadorna dei vostri sorrisi riconoscenti. Affettuose bufere. Vi rivedo magra e vibrante alla ribalta: prima con Annibale Betrone, che ansimava discreto: poi - al quinto o sesto applauso - sola. Sola tra i fiori: sola fra le lagrime: sola con i vostri grandi occhi carbonari. Era domenica. Io non andavo a teatro, in quegli anni, che la domenica di pomeriggio: la sera bisognava dormire, e la mattina, levarsi per la scuola. Saggezza antica. Maria Melato, giorno di festa della mia adolescenza. Gli ultimi fedeli, gli ultimi laudesi, vengono a voi, Maria, da un giorno di festa come il mio, da un palchetto familiare di terz'ordine: sono di certo, i remoti affascinati fanciulli di quelle "diurne" inondate di solidali sospiri.
Sospiri e omaggi ora svaniti. Da una decina di anni accadde questo: che una stima senza amore accompagna la melodiosa attrice. Gli spettatori nuovi si inchinano alla valentia raccomandata dai fedeli: ma restano a casa. Nè il repertorio soccorre. In una parola Maria Melato non è "moderna". "Moderno" è aggettivo equivoco: vorrei sapere, poniamo, che vi è di "moderno" in certe commedie che pur sollecitando l'appassionato consenso delle nostre platee più raffinate; o in certi attori che sono la sottile delizia della nostra raggiante "intellettualità". A ogni modo Maria Melato non obbedisce al gusto, al tormento, alle eleganze delle meningi di oggi; e noi siamo l'estrema guardia d'onore. Una sera o l'altra io getterò a Maria Melato una rosa; sebbene sia superato anche il "lancio delle rose". Ultima rosa di uno spettatore romantico alla soave superstite di un romantico naufragio. Le sartine, oggi, vanno al cinema; o preferiscono, a teatro, le spirituali eleganze di Vittorio De Sica e di Elsa Merlini, e poi, non singhiozzano più. Invano Maria Melato freme, supplica, si cava dall'anima l'amore ferito, la disperzione funesta, le battute dell'addio, la poesia della rinuncia; invano tornano sui cartelloni Dionisia e Tosca; invano si svolge sul palcoscenico il gran tressette della malinconia; invano le sedotte gridano: "salvate l'innocente!", o le mogli tradite flauteggiano, nell'ombra del crepuscolo, l'elegia del cuore infranto, o le amanti folle si sacrificano per improvvisa lucidità mentale, o le signore ancora belle, ma non ancora giovani si sciolgono con lunghe pause "intimiste" o con rumorosi sfoghi, dalle tentazioni vespertine... invano. Le fanciulle, le mogli, le amanti, le signore tentate non ascolano più Maria Melato, non si riconoscono più in quella voce ondosa. Maria Melato era una confessione; ma oggi le ascoltatrici non si pentono più. Cordiali bufere degli anni andati intorno al diffuso patire di Maria. Vecchia Arena del Sole in Bologna, nelle "diurne" popolane del lunedì: "sei grande, sei grande!". Sedotte e sedotti si agitavano, con il viso innaffiato sotto la ribalta. E quella volta - Natale 1923 - allo "Sperimentale" di Ruggi, per il ritorno di Maria dall'America? Due discorsi ascoltammo. Uno in nome dell'intellettualità, l'altro in nome delle "ammiratrici operaie". Due discorsi, un'offerta di fiori e un'offerta di uva. Nel mezzo l'attrice. "Io non so improvvisare" fu la risposta. "Lasciatemi leggere il mio ringraziamento". Cara, dolce, umana semplicità… (continua)