Qualcuno sostiene - e io concordo con lui - che ad Amleto bisognerebbe accostarsi ogni cinque- sei anni, come ad uno specchio della coscienza.
Io sono al secondo tentativo, che devo alla modestia e al talento di Franco Zeffirelli (col quale mi sono avvicinato al teatro una ventina di anni orsono). Penso ad Amleto - come ogni altro attore, suppongo - da quando ho scelto questo mestiere, una quindicina d'anni durante i quali sono stato tentato almeno tre o quattro volte di metterlo in scena. Ho sempre resistito alla tentazione, soprattutto perché mi rendevo conto che il fascino esercitato su di me dal personaggio, derivava più da una fede cieca in ciò che si dice e si scrive “su” Amleto, anziché dallo studio “di” Amleto (Amleto, come la Bibbia o il Vangelo, si legge troppo poco).
Per anni ho cercato di liberarmi di tutto ciò che sapevo sul testo e che mi aveva affascinato; da ogni tipo di cristallizzazione esterna o romantica. Dalla visione, per esempio, che mi ossessionava appena pensavo ad Amleto: una scena oscura e alla ribalta un uomo pallido e magro con un teschio in mano, sul fondo una tomba aperta e una lanterna. Sono arrivato ad Amleto quando Amleto mi ha interessato nella misura in cui mi interesso di me stesso (Amleto come autocoscienza, come reminiscenza) indipendentemente dal suo valore di personaggio teatrale. Ogni soluzione teatrale, si sa, può essere efficace ed ogni soluzione efficace nasconde una trappola.
Amleto è in noi. E' una malattia della coscienza. E' la morte che è in ciascuno di noi e che dobbiamo affrontare, accettare e risolvere, nella consapevolezza di essere nati per morire. Penso che questo nostro sia, più di ogni altro, il tempo di Amleto, perché mai come oggi “il mondo va a rotoli” (forse è qui il segreto della “profetica anima” di Shakespeare). Faccio Amleto perché la realtà spesso mi pesa e mi umilia, e l'immaginazione mi esalta; faccio Amleto perché non riesco a decifrare il mistero della morte e della sopravvivenza; perché mi vergogno di far parte di una umanità che permette la morte per inedia di un terzo di se stessa; perché un essere come Giovanni Vigesimo terzo viene a mancare nel momento in cui la sua presenza nel mondo fisico stava moralmente migliorandolo; perché Kennedy viene brutalmente assassinato e sul suo cadavere si inscena una tragica farsa, una macabra danza; perché Amleto è il grido di protesta dell'ultimo uomo occidentale prima della fine, prima del “silenzio”.
GIORGIO ALBERTAZZI