WHISKY E NEBBIA
Nella stagione dello "sboom" ecco anche in Italia lo spettacolo tipico degli anni di crisi e di assestamento: a Milano di cabaret ce ne sono già cinque...
Nel dicembre del '63, il fascicolo di Sipario dedicato al Teatro Cabaret nel mondo, raccoglieva sconsolate opinioni sulla situazione italiana - Bartolucci: siamo abbastanza lontani da queila politicizzazione stilizzata che (è) oggi una delle esigenze della ricerca teatrale; Eco: il costume italiano è ancora borbonico, il cabaret vive parlando male dell'autorità e in Italia l'autorità non si tocca; Bajini: possibilità di esercitare nel nostro paese un'attività di questa natura: nessuna; e come Bajini: Laura Betti, Puecher e Salce. Il Natale successivo, quello depresso, ha visto felicemente in funzione cinque locali specializzati, proprio qui a Milano, baricentro morale della congiuntura. C'è proprio da chiedersi che cosa sia successo e dove e quando di tanto vigoroso da spiazzare autorevoli opinioni vecchie di un solo anno. C'è da chiedersi se questo cabaret italiano sia un'allucinazione, un pallone sonda lanciato da forze nuove, una freccia del parto di vecchi manovratori d'idee, un fatto durevole, una via italiana a, un riflesso locale di. Eppoi, come struttura o specìfico cabarettistico, cosa denoti e connoti. Tutte ricerche da farsi subito, per scongiurare iI vaticinio di Jacobbi: o cabaret, avrai la vita dura: non ti combafferanno, no: ti esorcizzeranno - ti faranno morire sul letto d'oro del successo: via via Jannacci e via dentro le conigliete col pon-pon sul sedere. L'urgenza è pari alla possibile importanza dell'occasione, quella pura e semplice di scondizionare Teatro e Orfismo, l'attore dal prete, il materiale scenico dall'uomo (pardon!: dall'Uomo). Mi si permetta di riferire questo: non ridevo dal trenta agosto del trentanove, ma quando Massimini nello spettacolo di Vaime ci ha dato relazione del suo incontro con l'Alto Prelato nei closet dell'autogrill - be', peggio per chi non c'era: io non riesco più a non ridere tutte ie volte che, anche senza prelato.
I modi di questo cabaret sono ancora incertissimi, e discrepante il materiale. Forse perché la crisi a Berlino nel '19 era più acuta. Da Intra, ad esempio, hanno recuperato o si sono fatti recuperare da Bruno Munari. Risultato: quella cara simpatica marsottiana deliìla Flach e i suoi mimi, tie, mi mimificano un quartetto d'ombrelli. Ora, dico io, quest'ombrello antropo-surrealista è del trentasei. È l'ombrello di Mario il milanese di Rififi. È, insomma, tutta colpa dello Strehler, della nebbia, del piangiamoci sopra che fa bene (whisky) e dell'indiscutibile fatto che il signor Prevert ha retto lo scalandrone di sbarco a Céline - attracco Milano - se va bene nel '62. Alla fine, uno va li per lui, Jannacci, che tiene benissimo, e tenta di combattere il proprio long play, come altri la propria opera uno assai letta, assai data: i sostitutivi aggiornati del mood. Uno va li da Intra, dal padre dei cabarets milanesi, per la ridondanza barbonica di questo straordinario Jannacci, a godersi questo cantare che per colmo di fortuna non si riferisce a niente di attuale (a niente di in crisi) - barboni, partigiani, soldati all'attacco non ce n'è più, cosi come el problema dei scarp dei fioeu è vagamente incredibile in questo spaccato storico. In ispecie quando la società affluente defuisce un pochino, e la protesta ideologica (settoriale) diviene formale (globale). Jannacci fonderà un cabaret.
Da Negri siamo li. Ma non vorrei venir frainteso: va nel migliore dei modi, c'è gente, il lavoro dà, mi dicono loro stessi, una tangibile soddisfazione. Se discuto, è per vedere utilizzare al massimo queste possibilità, e la "tregua di censura infida: non fonda su un costume né su una revisione dei principi". Sicché, previo permesso ministeriale, faranno i pupi di Mantegazza. Nel frattempo, producono canzoni, e quelle di Negri sono eccellenti per il testo (funzionale la musica), salvo che per un piccolo neo: la sceneggiata, cioè la canzone che si va a presentare con supporto di gesto (qui non luci), è da Negri riferita a un personaggino: "ho pensato ai sentimenti di un ragioniere che vota, etc.". Tolto questo cappello da bedecher, rimane il lavoro pieno, immediato, corposo di un autentico dissacratore-commentatore del fatto saliente. La presa di uno di questi personaggini - e vogliamo paragonarli a quelli della Betti: saranno le fonti lettrrarie, ma i di lei non circolano - è totale, e il Q.I. pretende solo l'acquisto quotidiano di un giornale. Il cappelluccio alla canzone, invece, diafanizza (!) il signor Negri. Se da spettatore mi vedo l'attor Negri che cita o allude o, il piacere che ne cavo sarà forse decisionale, ma mi priva del privatissimo piacere di picchiare (contrastare, cooptare, collabotare con) proprio il signorattorenegri: il fatto in sé. In questo modo, insomma, una proiezione di personaggio si rivolge a una proiezione di spettatore, e ci risiamo con la magia e conseguente naturalismo. Mettiamo il caso, invece, che Negri scenda cantando dal suo palchetto: mi guarda e dice: sei uno sporco porchese. Se io da seduto, cantando, gli ribatto: Ja, ma ne faccio le spese - il gioco è fatto, no?
Chez le Clochard, ottimi presupposri. Nessun architetturame in sala. Proprietari spiantati - non hanno più niente da perdere dopo aver rinunciato a quartordici mensilità, Inam e cartellino (bravi!). Quindi, signori autori, pensiamoci: sono li pronti a qualunque cosa, anche a mettersi a studiare (sarà un mito interdisciplinare, ma non si vede perché con i nostri attori non si riesca a fare alcun riferimento culturale al di fuori del seminatino professionale, provinciale e specialistico). E, per quel che danno sulla scena, divertendosi loro con noi, sono assai vicini all'equazione cabaret - teatrojazz. Anche il loro materiale, che non è freschissimo ma piacevolmente servito, denuncia però l'insolerzia dell'autore italiano, bramoso di allori tragici, 'sta carogna: vuole farci piangere tutti, in ciò cooptato dal critico saputo, dall'ente del turismo e dalla voglia di cornmuoversi delle mie dattilografe, rimaste il solo, il vero sostegno di Paolo Grassi e di Racine. Ora questi Clochards dovranno cambiar sede (e marca di whisky, me I'hanno assicurato), Sarà bene non perderli di vista. Il Lanternin, invece, che ha utilizzato molto bete i Gufi in apertura del locale, già annaspa un po', per questioni di direzione artistica. Se il proprietario non ci mette qualche testa fina, è meglio che ripieghi sul genere music-hall: il pubblico è spietato, e sgonfia Ie patacche in due giorni.
E siamo da Nebbia. Ne parlo da ultimo perché covano, lui e il suo cabaret, il maggior numero di angosce, non ultima quella di menzionare Saragat, e postrema quella di assumere Arbasino. Franco Nebbia ha il genio della notte, non si ubriaca, vorrebbe attorno a sé tutta una certa Milano dalle 19 in poi, e io - sembra dire - andrò a letto a mezzogiorno. Ora: se nella Milano impigrita nei suoi sonni giansenisti alligna un fenomeno come il cabarer di Nebbia, la deduzione mi pare ovvia: siamo al giro di boa d'un intero costume. Saragat, appunto. D'altra parte, ho personalmente assistito all'uscita perentoria (02"30") di un colto ricco fine e impegnato editore milanese, che si trascinava via la moglie ringhiandole: ma insomma non si può mico: domani ho l'ufficio. Che da chierico a chierico suona eguale, pensa un po'. Cosi, tra Grassi che vuole il teatro alle 19 per far risparmiare sulla notturna dei tram e Nebbia che vuol tirar tardi, si crea un prezioso spazio operativo, il pubblico resta costantemente Io stesso, e partecipa ad ambedue le illiberalità temporali. Amo questo Nebbia Club, anche se vi ho avuto molte sciagure. Come quella di sentirmi il Bene. E Milly. Sono due incidenti diversi. Col primo, pareva di essere a una biblioteca animata per deficenti senza la i. È certo che Majakovskij ce lo dice meglio il Fidora una sera che abbia bevuto abbastanza; proprio petché non lo dice. L'ausilio della tuta biancaerossa di rasone, del bicchiete scandito-scanditore, sono teatrino ex-azionista, all'Espresso: Ben venga, mi faccia fuori e dopo discutiamo. Il teatro è morto, e o lo reinveintiamo qui, tra il fumo, col whisky o contrabbandiamo per viva la mummia di Neferiti. Splendida fu, la notte della prima. la controscena del Bobo Imperterrito Piccoli, sorretto dal Germano Dolce Lombardi che, dall'alto di una sbronza empirea, bordonavano: Zacconi! Zacconi! dal fondosala, annientando d'un colpo i valori decisionali del factum artistico, l'attenzione dei lodigiani, la G.M. Protettrice del Carmelo e la presenza di donne. Seguì la contto-contro-scena del Nebbia, detta "la cacciata del Lombardi". Un meto incidente tecnico. Quello dell'occasione mancata. Con Milly, stesso spreco. Milly è grande, è un mostro di bravura, mi eccita su e giù dal palcoscenico: ma non satà mai una cabarettista. Perché salire su un tavolo e coinvolgere cento soldati a riposo in una canzone - notte fumo anisette - è cabaret. Invece Milly, una sera, vista dal bar la sala ciarliera, decise che non si aveva voglia di lei, e se ne andò, ciao Franco, ciao ciao. E non era un gesto (il solo baritono può ancora eclissarsi creando un gesto), ma un calcolo bonario: sono disattenti, dico cose complesse, non è il caso. Proprio i motivi per i quali Miliy doveva cantate: il mettersi di faccia al pubblico è teatro, non cabaret. Cosi scatta il discorso sulla scenotecnica del cabaret, e sull'happening. Il palcoscenico da cabaret va dissolto nella sala, e nemmeno come al circo o al S.t'Erasmo con un luogo deputato. Cosi il buio tra gli sketches, che è sipario. Cosi la quinta di Nebbia, che è il sito dei clandestini travestimenti. Via! Via tutto: tutta la sala è sacra (principio tecnico della dissacrazione): cose che calano, vengon su rumori, proiezioni, spots... (un'occasione, come quella di Intra, d'aver tutta la sala a dislivelli, con un pilastrone centrale, che preclude la visuale a un inrero settore di posti, tutto tutto buttaro via dall'idea non peregrina di orientare sala e spettacolo verso una pedana. Come dice il Vaime, gli architetti sono veramente degli ingegneri, solo un po' più fini. E come mi dice qualcuno, il teatro non regge più perché all'uomo contemporaneo è impossibile accudire a una sola cosa per volta. Mi pare giusto: giustificherebbe il cabaret comunque dà altre idee. Ogni tempo morto dell'uomo (es.: le attese del metrò, i viaggi in autobus) è lecitamente riempibile col teatro. Ma per difendere il pubblico dal teatro sub-liminare, pagato dalla Saponi Riuniti, non c'è altra via che l'insegnargli a essere nel teatro, co-agendo, da deuteragonista. È I'unica indicazione ragionevole sinora venuta dai tecnici del tempo libero. Punto due: il famoso test d'esecuzione che vado proponendo agli attori di cabaret: sia dato un signore, che mangia pastasciutta, sorseggiando whisky, con la mano sinistra sulla coscia dell'amica e l'orecchio destro atteso alle ciance di due vicini. Sia dato un quartetto d'attori, tutti presenti in sala: di questi, tre siano estranei all'azione. L'azione è: il quarto attore sta recitando una pausa. Se ora il signore di prima alza distrattamente l'occhio e senza possibilità logica di dubbio individua l'attore che sta recitando, quello è un attore da cabaret, il testo è da cabaret e non può essere null'altro: non music-hall, non teatrino tascabile. Cabaret. Ed è cabaret il testo che si sta eseguendo.
I modi di questo cabaret sono ancora incertissimi, e discrepante il materiale. Forse perché la crisi a Berlino nel '19 era più acuta. Da Intra, ad esempio, hanno recuperato o si sono fatti recuperare da Bruno Munari. Risultato: quella cara simpatica marsottiana deliìla Flach e i suoi mimi, tie, mi mimificano un quartetto d'ombrelli. Ora, dico io, quest'ombrello antropo-surrealista è del trentasei. È l'ombrello di Mario il milanese di Rififi. È, insomma, tutta colpa dello Strehler, della nebbia, del piangiamoci sopra che fa bene (whisky) e dell'indiscutibile fatto che il signor Prevert ha retto lo scalandrone di sbarco a Céline - attracco Milano - se va bene nel '62. Alla fine, uno va li per lui, Jannacci, che tiene benissimo, e tenta di combattere il proprio long play, come altri la propria opera uno assai letta, assai data: i sostitutivi aggiornati del mood. Uno va li da Intra, dal padre dei cabarets milanesi, per la ridondanza barbonica di questo straordinario Jannacci, a godersi questo cantare che per colmo di fortuna non si riferisce a niente di attuale (a niente di in crisi) - barboni, partigiani, soldati all'attacco non ce n'è più, cosi come el problema dei scarp dei fioeu è vagamente incredibile in questo spaccato storico. In ispecie quando la società affluente defuisce un pochino, e la protesta ideologica (settoriale) diviene formale (globale). Jannacci fonderà un cabaret.
Da Negri siamo li. Ma non vorrei venir frainteso: va nel migliore dei modi, c'è gente, il lavoro dà, mi dicono loro stessi, una tangibile soddisfazione. Se discuto, è per vedere utilizzare al massimo queste possibilità, e la "tregua di censura infida: non fonda su un costume né su una revisione dei principi". Sicché, previo permesso ministeriale, faranno i pupi di Mantegazza. Nel frattempo, producono canzoni, e quelle di Negri sono eccellenti per il testo (funzionale la musica), salvo che per un piccolo neo: la sceneggiata, cioè la canzone che si va a presentare con supporto di gesto (qui non luci), è da Negri riferita a un personaggino: "ho pensato ai sentimenti di un ragioniere che vota, etc.". Tolto questo cappello da bedecher, rimane il lavoro pieno, immediato, corposo di un autentico dissacratore-commentatore del fatto saliente. La presa di uno di questi personaggini - e vogliamo paragonarli a quelli della Betti: saranno le fonti lettrrarie, ma i di lei non circolano - è totale, e il Q.I. pretende solo l'acquisto quotidiano di un giornale. Il cappelluccio alla canzone, invece, diafanizza (!) il signor Negri. Se da spettatore mi vedo l'attor Negri che cita o allude o, il piacere che ne cavo sarà forse decisionale, ma mi priva del privatissimo piacere di picchiare (contrastare, cooptare, collabotare con) proprio il signorattorenegri: il fatto in sé. In questo modo, insomma, una proiezione di personaggio si rivolge a una proiezione di spettatore, e ci risiamo con la magia e conseguente naturalismo. Mettiamo il caso, invece, che Negri scenda cantando dal suo palchetto: mi guarda e dice: sei uno sporco porchese. Se io da seduto, cantando, gli ribatto: Ja, ma ne faccio le spese - il gioco è fatto, no?
Chez le Clochard, ottimi presupposri. Nessun architetturame in sala. Proprietari spiantati - non hanno più niente da perdere dopo aver rinunciato a quartordici mensilità, Inam e cartellino (bravi!). Quindi, signori autori, pensiamoci: sono li pronti a qualunque cosa, anche a mettersi a studiare (sarà un mito interdisciplinare, ma non si vede perché con i nostri attori non si riesca a fare alcun riferimento culturale al di fuori del seminatino professionale, provinciale e specialistico). E, per quel che danno sulla scena, divertendosi loro con noi, sono assai vicini all'equazione cabaret - teatrojazz. Anche il loro materiale, che non è freschissimo ma piacevolmente servito, denuncia però l'insolerzia dell'autore italiano, bramoso di allori tragici, 'sta carogna: vuole farci piangere tutti, in ciò cooptato dal critico saputo, dall'ente del turismo e dalla voglia di cornmuoversi delle mie dattilografe, rimaste il solo, il vero sostegno di Paolo Grassi e di Racine. Ora questi Clochards dovranno cambiar sede (e marca di whisky, me I'hanno assicurato), Sarà bene non perderli di vista. Il Lanternin, invece, che ha utilizzato molto bete i Gufi in apertura del locale, già annaspa un po', per questioni di direzione artistica. Se il proprietario non ci mette qualche testa fina, è meglio che ripieghi sul genere music-hall: il pubblico è spietato, e sgonfia Ie patacche in due giorni.
E siamo da Nebbia. Ne parlo da ultimo perché covano, lui e il suo cabaret, il maggior numero di angosce, non ultima quella di menzionare Saragat, e postrema quella di assumere Arbasino. Franco Nebbia ha il genio della notte, non si ubriaca, vorrebbe attorno a sé tutta una certa Milano dalle 19 in poi, e io - sembra dire - andrò a letto a mezzogiorno. Ora: se nella Milano impigrita nei suoi sonni giansenisti alligna un fenomeno come il cabarer di Nebbia, la deduzione mi pare ovvia: siamo al giro di boa d'un intero costume. Saragat, appunto. D'altra parte, ho personalmente assistito all'uscita perentoria (02"30") di un colto ricco fine e impegnato editore milanese, che si trascinava via la moglie ringhiandole: ma insomma non si può mico: domani ho l'ufficio. Che da chierico a chierico suona eguale, pensa un po'. Cosi, tra Grassi che vuole il teatro alle 19 per far risparmiare sulla notturna dei tram e Nebbia che vuol tirar tardi, si crea un prezioso spazio operativo, il pubblico resta costantemente Io stesso, e partecipa ad ambedue le illiberalità temporali. Amo questo Nebbia Club, anche se vi ho avuto molte sciagure. Come quella di sentirmi il Bene. E Milly. Sono due incidenti diversi. Col primo, pareva di essere a una biblioteca animata per deficenti senza la i. È certo che Majakovskij ce lo dice meglio il Fidora una sera che abbia bevuto abbastanza; proprio petché non lo dice. L'ausilio della tuta biancaerossa di rasone, del bicchiete scandito-scanditore, sono teatrino ex-azionista, all'Espresso: Ben venga, mi faccia fuori e dopo discutiamo. Il teatro è morto, e o lo reinveintiamo qui, tra il fumo, col whisky o contrabbandiamo per viva la mummia di Neferiti. Splendida fu, la notte della prima. la controscena del Bobo Imperterrito Piccoli, sorretto dal Germano Dolce Lombardi che, dall'alto di una sbronza empirea, bordonavano: Zacconi! Zacconi! dal fondosala, annientando d'un colpo i valori decisionali del factum artistico, l'attenzione dei lodigiani, la G.M. Protettrice del Carmelo e la presenza di donne. Seguì la contto-contro-scena del Nebbia, detta "la cacciata del Lombardi". Un meto incidente tecnico. Quello dell'occasione mancata. Con Milly, stesso spreco. Milly è grande, è un mostro di bravura, mi eccita su e giù dal palcoscenico: ma non satà mai una cabarettista. Perché salire su un tavolo e coinvolgere cento soldati a riposo in una canzone - notte fumo anisette - è cabaret. Invece Milly, una sera, vista dal bar la sala ciarliera, decise che non si aveva voglia di lei, e se ne andò, ciao Franco, ciao ciao. E non era un gesto (il solo baritono può ancora eclissarsi creando un gesto), ma un calcolo bonario: sono disattenti, dico cose complesse, non è il caso. Proprio i motivi per i quali Miliy doveva cantate: il mettersi di faccia al pubblico è teatro, non cabaret. Cosi scatta il discorso sulla scenotecnica del cabaret, e sull'happening. Il palcoscenico da cabaret va dissolto nella sala, e nemmeno come al circo o al S.t'Erasmo con un luogo deputato. Cosi il buio tra gli sketches, che è sipario. Cosi la quinta di Nebbia, che è il sito dei clandestini travestimenti. Via! Via tutto: tutta la sala è sacra (principio tecnico della dissacrazione): cose che calano, vengon su rumori, proiezioni, spots... (un'occasione, come quella di Intra, d'aver tutta la sala a dislivelli, con un pilastrone centrale, che preclude la visuale a un inrero settore di posti, tutto tutto buttaro via dall'idea non peregrina di orientare sala e spettacolo verso una pedana. Come dice il Vaime, gli architetti sono veramente degli ingegneri, solo un po' più fini. E come mi dice qualcuno, il teatro non regge più perché all'uomo contemporaneo è impossibile accudire a una sola cosa per volta. Mi pare giusto: giustificherebbe il cabaret comunque dà altre idee. Ogni tempo morto dell'uomo (es.: le attese del metrò, i viaggi in autobus) è lecitamente riempibile col teatro. Ma per difendere il pubblico dal teatro sub-liminare, pagato dalla Saponi Riuniti, non c'è altra via che l'insegnargli a essere nel teatro, co-agendo, da deuteragonista. È I'unica indicazione ragionevole sinora venuta dai tecnici del tempo libero. Punto due: il famoso test d'esecuzione che vado proponendo agli attori di cabaret: sia dato un signore, che mangia pastasciutta, sorseggiando whisky, con la mano sinistra sulla coscia dell'amica e l'orecchio destro atteso alle ciance di due vicini. Sia dato un quartetto d'attori, tutti presenti in sala: di questi, tre siano estranei all'azione. L'azione è: il quarto attore sta recitando una pausa. Se ora il signore di prima alza distrattamente l'occhio e senza possibilità logica di dubbio individua l'attore che sta recitando, quello è un attore da cabaret, il testo è da cabaret e non può essere null'altro: non music-hall, non teatrino tascabile. Cabaret. Ed è cabaret il testo che si sta eseguendo.
Tasto grave: non esistono che tenui speranze, e proprio da Nebbia, sulla nascita d'un autore da cabaret, proprio perché tutti tengono d'occhio il teatrone, il fratello maggiore Iaureato, e cercano qui il mezzo per inserirsi Iì. Errore: come quello di chi sosteneva essere il cabaret una palesra per attori. Non coesistono, i due sistemi di rappresentazione. Uno sarà, I'altro è stato. Uno è happening, tiene conto del fatto che io assisto, e non un elettrotecnico. L'altro tien conto di un pubblico generico, distanziato e disponibile ai soli riferimenti ovvi (il papà nel bidone della spazzetura - e chi non ci ha sbattuto iI suo?). La differenza sostanziale è nell'attività del pubblico nell'azione drammatica. E anche la distrazione, come al test di cui sopra, è in spessore una partecipazione. Tutto contento, il Lino Robi scambiava per happening un battibecco con lo spettatore indispettito. O almeno per un principio di happening. A tanto giunge l'accademismo culturale dell'attore ialiano? Happening un'argura rimbeccata? A Parigi! A Parigi!
ANDREA BRUNO MOSETTI
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