L'attore-regista: intuizione e controllo
1) ll mestiere dell'attore è per sua natura cosi impalpabile, dinamico, indiretto e poco riducibile alla somma delle sue componenti tecniche appariscenti che un attore per indicare tutti i suoi maestri dovrà fatalmente estendere il discorso a un numero di persone certamente molto maggiore di quello che il semplice currìculum dei suoi studi veri e propri suggerirebbe. Talvolta per un attore può essere maestro, e anche maestro determinante, un critico o uno scrittore, anche se non conosciuto personalmente; o addirittura, per qualche gioco lontano di analogie, un personaggio al di fuori del mondo artistico. Ad ogni modo dovendo citare i maestri veri e propri, in senso didattico, farei per primi i nomi dei maestri elementari nel mio curriculum, che mi hanno accompagnato nei primissimi passi della professione e all'Accademia d'Arte Drammatica di Roma: Wanda Capodaglio, Neera Carini e Mario Pelosini, Si sà che i primi ncontri per forza di cose, per suggestione, determinano in genere in maniera piuttosto notevole Io sviluppo espressivo di un attoree, lasciano un segno particolare, soprattutto nella zona strumentale dei mestiere, cioè la dizione, il ritmo, i fiati, e anche certe tendenze di base, certe scelte che poi diventeranno facilmente periodiche e ricorrenti. Per esempio, pensando a Mario Pelosini che fu il mio maestro di dizione poetica, credo senz'altro di riconoscere nella tecnica, e nel modo espressivo che poi a poco a poco si è elaborato in me, molti elementi che ho preso da lui; in particolar modo ricordo la sua estrema cura del verso, cioè I'intenzione visibile in tutti i suoi alIievi abbastanza chiaramente, che il verso fosse si una parte di un tutto, ma anche un più piccolo tutto a se stante, con dei problemi di ricorso da un verso all'altro, di enjambement dell'attore a seguire un eventuale enjambement dell'autore, con alcuni pericoli anche che rasentavano talvolta una sonorità compiaciuta. Cosi credo di avere ereditato da Wanda Capodaglio un certo piglio, un ritmo nervoso, un tono facilmente frammentario della frase e dell'intonazione. A questi maestri, naturalmente, ricordandomi di quello stesso periodo, dovrei aggiungere in senso critico e generale dell'importanza e del significato della professione e del teatro in genere, il nome di Silvio D'Amico. I miei maestri indiretti, da cui ho tratto qualcosa, per averli ascoltati o letti, o per averne amato in particolare qualche concezione, appartengono alle più disparate categorie. Sono attori: ho avuto la fortuna di fare in tempo ad ascoltare e talvolta a collaborare con alcuni dei grandi maestri del passato, Zacconi, Ruggeri, con cui ho anche recitato in svariate occasioni; entrambi spesso mi diedero dei consigli o addirittura mi scoprirono I'esistenza di piccole ricette tecniche, il cui complesso è effettivamente la traccia didattica maggiore che si può sperare di avere da una professione cosi labile, cosi basata sulla estemporaneità e sul mutare dei tempi, delle cose e delle sensazioni. Registi, naturalmente: Luchino Visconti mi diresse in vari lavori nei primi tempi della mia carriera ed evidentemente mi insegnò molte cose. Perfino registi con cui non ho lavorato direttamente: mi ricordo in maniera particolare di alcune conversazioni avute con Charles Laughton e con Gielgud nel periodo in cui preparavo Amleto. Registi di cinema, in particolare Mario Monicelli, uno dei pochi che frequentano, o frequentavano, assiduamente il teatro e con cui, fin dal tempo ormai lontano dei Soliti ignoti, ho avuto spesso delle discussioni proprio sulla recitazione teatrale. E poi, naturalmente, si potrebbero nominare i teorici: a parte Ia solita Poetica di Aristotele che si cita e giustamente perché contiene non tanto delle spiegazioni logiche quanto un'interpretazione, un senso della bellezza generale del teatro, una scelta fra il metodo di Stanislavskij e certe teorie brechtiane (a parte tutti gli equivoci che sono sorti spesso facendo una troppo rigida demarcazione tra questi due sistemi) evidentemente implica una conformazione particolare del gusto e delle tendenze di un attore. 2) lo ritengo che il rapporto regista-attore si riavvii lentamente ma abbastanza visibilmente a quelli che io considero i suoi giusti termini. A questo proposito io credo di pensarla allo stesso modo da almeno una quindicina d'anni, da quando cioè ho assunto il mestiere anche con responsabilità di direzione. Ho sempre rispettato e considerato importantissima la funzione del regista nello spettacoio moderno. ln senso storico l'avvento della regia è stato soprattutto in Italia una necessità urgente di bonifica da vecchie servitù feudali che gravavano sulle concezioni teatrali nostre, e quindi lo sgombero di infinità di zavorre; riportando il discorso ai termini essenziali, mi pare che la posizione del regista sia e abbia da essere essenzialmente quella di un demiurgo, di un trait d'union, di uno spiegatore, di un inquadratore, di un coordinatore fra i due elementi che rimangono sostanziali e fisicamente indispensabili, nello spettacolo, cioè I'autore e l'attore. Naturalmente con l'avvento della regia si è entrati in una fase, secondo me oggi abbastanza nettamente terminata, di involuzione; si è arrivati ai ben noti barocchismi della regia, agli eccessi del senso dell'orpello esterno, della scenografia troppo sovrastante, di ricerche di dettaglio che spesso facevano perdere il senso sintetico, ìl significato poetico dei testi degli spettacoli. Ma adesso mi pare che questi eccessi siano stati per Ia maggior parte ringolati anche perché le nuove leve di attori fruiscono probabilmente di una partenza sociale e di educazioire, di cultura media, un tantino maggiore e che quindi li autorizza meglio a non rendersi totalmente schiavi, nella parte critica, del regista o del direttore. Siccome questi processi da noi si accelerano e si ribaltano con grande velocità, già si può pensare a un pericolo opposto; cioè a un fenomeno di neo-individuaiismo o di neo-romanticismo con di nuovo prevaricazioni eccessive da parte degli attori. Si sa fra l'altro che noi italiani, noi mediterranei in genere, cadiamo molto volentieri nell'illusione dell'improvvisazione, del talento ribelle a qualunque freno e disciplina. Per sintetizzare comunque il mio pensiero, io credo all'attore-regista, non nel senso evidentemente che l'attore debba di necessità essere regista di se stesso o dello spettacolo che si mette in scena, ma che un attore abbia capacità di unire alle doti di intuizione e di sensibilità quelle del controllo. La professione consiste, riducendola proprio all'essenza del suo meccanismo, in due movimenti opposti dal cui equilibrio dìpende la bellezza del tutto: cioè la libertà totale dell'immaginazione, la piena del sentimento e un controllo critico, culturale, intellettuale che riporti il sentimento nei suoi alvei normali e giusti. 3) Non posso dire se preferisco lavorare in un teatro stabile o in una compagnia di giro perché da buoni tre anni non lavoro in ltalia e non ho progetti teatrali, quindi la domanda è un po' teorica per me. Ad ogni modo ho sempre agito in compagnie di giro, ma non escluderei in nessun modo, ritornando al teatro, di appartenere a un complesso stabile. Penso che questa sia, da un punto di vista esclusivamente strutturale, un po' I'evoluzione normale del teatro nel mondo oltre che in ltalia e del resto considero la mia impresa del Teatro Popolare ltaliano - nonostante la sua dichiarata e direi quasi polemica mobilità - un'esperienza di teatro stabile per una certa continuità di proposte e di politica artistica, più che organizzativa. 4) Televisione ne ho fatta abbastanza, e mi diverte. La considero tuttora però un mezzo divulgativo del cinema o del teatro, oppure uno straordinario mezzo che riguarda più che I'arte, I'attualità, più che la sintesi artistica, la cronaca. Dal punto di visfa dell'attore, la Tv è stimolante, perché imposta una specie di gimcana di difficoltà che sono insieme quelle del teatro e del cinema, costituisce quindi un eccellente esercizio. Purtroppo manca il pubblico: il pubblico esiste, enorme, ma checché si dica, è un pubblico frantumato, che ha Ia possibilità di corrispondere alla somma degli spettatori individuali; Io spettatore della televisione, cioè, può vedere da solo lo spettacolo, quindi non esiste quel tipo di rituale collettivo che è uno degli elementi fondamentali, secondo me, del teatro. ll cinema è un parente molto più stretto del teatro, cioè appartiene indubbiamente alla zona dell'elaborazione artistica; è per I'attore uno straordinario, importantissimo banco di prova e di esercizio e dà possibilità artistiche assolute innumerevoli, con Ia differenza fondamentale che spesso si accontenta o si prefigge - non c'è nessun senso peggiorativo o diminutivo in questo - di riprodurre Ia realtà cosi com'essa è: quindi diventa un mezzo artistico, ma con un particolare interesse alla ontologia, al dettaglio, all'analisi, laddove il teatro evidentemente si occupa, proprio per sua natura, funzione e regola, della sintesi, dell'insieme e della realtà cosi come dovrebbe essere, tentando sempre di trasformarla o addirittura di vioIentarla. Personalmente il cinema mi ha interessato in questi ultimi anni: vi ho svolto tutta Ia mia attività, e credo che, appunto sotto il profilo dell'analisi e della ricerca del dettaglio, mi abbia insegnato molte cose, che spero di riportare tra I'altro nel teatro il giorno che vi ritornerò. C'è un'osmosi, uno scambio fra questi due mezzi, due rami che partono dalla stessa grande radice. 5) Credo che si accenni soprattutto al Living Theatre, che è certamente una delle esperienze, una delle proposte più stimolanti, più curiose e più nuove, anche tecnicamente, di questi ultimi tempi. ll Living Theatre, mi ha interessato profondamente, direi per i Mysteries più che per The Brig, proprio perché nei Mysteries c'è una fratturazione voluta, programmatica dello spettacolo che credo si addica di più al tipo di ricerca che il Living sta facendo; in The Brig pesa I'esistenza stessa di una tesi: è un po' quello che è successo drammaturgicamente a lonesco, partito come un autore esclusivamente eversore e provocatore, e a poco a poco, attraverso una normale, del resto comprensibilissima involuzione, arrivato a essere quasi I'opposto di quello che era all'inizio, e certamente meno stimolante, meno appassionante, a mio riguardo. Ad ogni modo per il Living credo che Ia parte più curiosa sia proprio quella che riguarda gli attori. È la proposta non di un metodo, ma addirittura di un modo di porsi dinanzi alla professione, assolutamente inedito: credo che vi sia una grande porzione di utopia perché si prospetta di rompere addirittura i limiti fisici, fisiologici della professione, Ia quale rimane sempre di mediazione di qualche cosa che già esiste. Non credo all'improvvisazione totale e tanto meno alla folgorazione demoniaca o mistica che secondo me appare negli attori del Living e ne inquina o comunque ne condiziona un tantino il valore. Nell'ultima mia parziale esperienza teatrale, cioè nella breve tournée in Sud America che ho fatto recentemente, ho tentato per mio conto, autorizzato dal tipo stesso dello spettacolo antologico e dalla varietà dei temi, alcuni squarci di assoluta improvvisazione non solo sui testi, ma (questa è la parte più interessante per me) sullo stato d'animo, cioè un ribaltamento continuo dell'interpretazione di un pezzo e soprattutto del rapporto con il pubblico. Purtroppo sono cose che, dette, rimangono un po' teoriche: anche questo è uno dei limiti insiti proprio alla nostra professione e secondo me ribellarsi troppo a questi limiti vuol dire uscire dalla professione e fare appunto la televisione, se uno ama Ia cronaca, o un rito religioso invece che fare il teatro. ll teatro purtroppo non è più un rito religioso, ha leggi diverse, leggi estetiche e non più metafisiche o mistiche.
VITTORIO GASSMAN