Dal Libro "GOVI 1885 - 1985" (erga - edizioni): il centenario della nascita di Gilberto Govi
- Un sipario rimasto aperto
Autore: Carlo Maria Pensa
Un sipario rimasto aperto
Erano, a dir poco, quarant'anni, nel '57, che Gilberto Govi passava vittorioso sui palcoscenici italiani e non soltanto italiani, ogni volta sorprendendo il pubblico per quel suo modo d'essere umanamente comico e, ancor più, per la misteriosa capacità di fare dei dialetto genovese - prima di lui e fuor dalla sua terra sempre ritenuto crittofonico - una lingua lucida e penetrante. Quarant'anni da quando aveva conquistato perfino Virgilio Talli, noto per i rigorismi toscani; da quando era riuscito a frantumare trionfalmente la riservatissima roccaforte del teatro Carignano a Torino; e poco meno, da quel dicembre 1923 in cui lo aveva conosciuto e acclamato anche la platea un po' sospettosa dei Filodrammatici a Milano.
Quarant'anni e noi, suoi vecchi spettatori, da giovanissimi che eravamo stati, riconoscemmo, pur con rammarico, il diritto di Govi, superata la settantina, a ritirarsi dalle scene, convinti oltreppiù che tutti gli italiani, per quasi tre generazioni, ne avessero già goduto l'arte, la simpatia, la lepidezza.
Invece, 1957, la televisione. E sembrò che tutto il paese scoprisse, entusiasticamente, Gilberto Govi. Si tirarono in ballo, a paragonarne i successi, certe trasmissioni che avevano sconvolto le serate del popolo ma che - siamo sinceri - non erano state simboli dell'intelligenza e della finezza di gusto delle masse. Sì, insomma, ne fummo quasi irritati, dovendo constatare che per troppo tempo tanta gente era rimasta chiusa in casa invece di correre nei teatri ad applaudire Gilberto Govi, e che un attore come lui, per farlo conoscere, si era dovuto portarglielo in salotto. Ma l'irritazione fu breve, perché quella scoperta, trasformatasi ben presto in una non mal sazia richiesta di ritorni sugli schermi casalinghi, ci aiutò a capire, ancor più a fondo di quanto sapessimo, che Govi era davvero, ed era stato, l'unico attore italiano ad aver saputo elevare a vivezza di lingua, per tutto il paese, un dialetto culturalmente prigioniero in un angusto alveo regionale, cavandone gli umori più genuini, sì, ma soprattutto inventandolo. E non sembri, questo verbo, un paradosso. Certo che altri, prima di lui o nei suoi stessi anni, avevano unificato e unificarono, in altri dialetti, il sentimento della nazione. Ma - poniamo - il milanese di Edoardo Ferravilla veniva giù da una tradizione che si chiamava Carlo Maria Maggi e Carlo Porta; il veneziano o il veneto di Benini (genovese di nascita, guarda caso) e di Zago, di Baseggio e dei Micheluzzi affondava le radici nella rivoluzione goldoniana; con Di Giacomo e Bovio s'era fermentato un mondo su cui i De Filippo avrebbero potuto innestare il gioco fantastico dell'eredità scarpettiana. E volessimo continuare le citazioni, per arrivare a Musco e a Petrolini, troveremmo sempre, nelle fortune dei massimi interpreti del dialetto, ii magma della poesia, cioè una matrice di forte impasto letterario. Ora, non si toglie nulla alle virtù storiche e civili della Liguria se prendiamo atto che Govi, al contrario, dovette costruire il suo teatro su un'ipotesi, una speranza ambiziosa e non su una realtà preesistente, facendosi lui stesso autore, insieme con i suoi autori, dal Bacigalupo a Bassano (che troppo poco, tuttavia, diede, del suo ingegno drammaturgico, al concittadino): tanto vero che, scomparso lui e nonostante i generosi impegni assunti dai rari epigoni, un teatro genovese cui il dialetto - per usare un'espressione di E. Ferdinando Palmieri - non faccia barriera spirituale, è stato impossibile ricrearlo. Inimitabili possono essere stati ed essere i Ferravilla, i Musco, i Benini; ma irripetibile resta soltanto Gilberto Govi, ancorché costretto, spesso, in temi e situazioni di un repertorio fragile, proprio per quella sua capacità di trasfondere se stesso in un dialetto soltanto suo eppure di tutti. Possiamo dolercene, d'accordo; ma se così non fosse, Govi non sarebbe, ancora oggi, di scena nella memoria di chi lo vide e lo ascoltò. E per un attore, sul nome e sull'arte del quale, solitamente, passa rapidissima e inesorabile l'onda dell'oblio, è come se il sipario non si richiudesse mai.
CARLO MARIA PENSA