Dal Programma di sala A CHE SERVONO QUESTI QUATTRINI 1997:
- Quarant'anni dalla morte di Armando Curcio
Autore: Marina Curcio
Armando Curcio: quarant'anni dalla morte e A che servono questi quattrini?
Spesso l'opera supera l'autore. Quando si parla di Armando Curcio il pensiero corre subito al profluvio di opere editoriali prodotte sotto questo nome. Pochi sanno e conoscono l’uomo che stava dietro a tutto questo. Un uomo impastato di arguzia tutta napoletana, fine intelligenza e rigore antico. Proprio quarant'anni fa, nel 1957, Armando Curcio improvvisamente moriva. Per ricordarlo viene messa in scena il 25 novembre al Manzoni di Milano una delle sue commedie più note: A che servono questi quattrini? con Tato Russo e Leopoldo Mastelloni. Al di là della sua opera editoriale, infatti, Curcio era affetto da un'onnivora curiosità per tutto ciò che era attinente al mondo della scrittura e della letteratura. Oltre a numerosi lavori teatrali, fu saggista, giornalista, umorista, creatore di personaggi indimenticabili per piccoli e grandi come "Re Peperone" e "Pappagone", quest'ultimo portato al successo da Peppino De Filippo. Perché Curcio era un intellettuale che sapeva ridere delle ossessioni e delle manie del mondo letterario. E sapeva ridere anche nelle situazioni drammatiche da vero filosofo stoico-napoletano. Ne dà una testimonianza emblematica l’indimenticato critico teatrale e cinematografico Sandro De Feo che scriveva sulla “Gazzetta del Popolo”: “Armando Curcio lo conobbi un po' tardi, quando egli aveva già passato la quarantina. (...) Con una lingua così tagliente e la vocazione tutta meridionale del massacro dei potenti, dei boriosi e degli stupidi con l'arma del ridicolo, una vocazione che in lui talvolta rasentava il genio, è stupefacente come egli sia riuscito farla franca in quegli anni difficili (De Feo si riferisce agli anni del fascismo). Qualche fastidio lo ebbe a Milano nel suo lavoro di editore, ma se avessero saputo, o tenuto conto, di quel che diceva ogni sera tra amici, avrebbe trascorso gran parte della sua esistenza alle isole. Invece furono gli inglesi ad arrestarlo (...) Una sera che Curcio, Giangaspare Napolitano e Calcagno uscivano da casa mia fuori orario, furono caricati su una "Jeep" e portati a Regina Coeli dove rimasero alcuni giorni. E Curcio rideva fino a sentirsi male per l’ironia del caso. Arrestato dagli inglesi. Rideva e rideva rovesciando il capo sulla spalliera della poltrona...”
Insieme a Talarico e Flaiano, Curcio costituiva l'anima "leggera" della cultura italiana di quel periodo, spesso protagonisti attivi e passivi di facezie, scherzi e pettegolezzi vari. Ma in Curcio esisteva non solo l'anima giocosa, portata allo scherzo e all'autoironia. La sua storia di editore non fu facile, per esempio. La ricordiamo attraverso le parole dello stesso Talarico, allora critico teatrale del "Momento sera", che ricordava quei giorni in un articolo significativo scritto in occasione del bel successo ottenuto da A che servono questi quattrini? al Parioli interpretata da Peppino De Filippo:
“Dall’avarissimo" padre, Curcio aveva ereditato un milione tondo, una cifra considerevolissima per quei tempi, a dir poco un miliardo oggi. Curcio pensò subito d'investirla in un'impresa sicuramente redditizia, un’enciclopedia popolare basata, preminentemente sulle prenotazioni. (...) Quando l’opera fu licenziata dalla tipografia era già esaurita. Ma un concittadino del neo editore, fascista fanatico e zelante, che svolgeva mansioni cameratesche all’ufficio stampa della prefettura di Milano scovò, nel secondo volume dell'enciclopedia curciana, una brevissima, lapidaria voce: Matteotti Giac. Deput. Social. n. Fratta Polesine 1886-assass. Roma 1924. La voce Matteotti, aggravata da quell’assass. Costò la vita alla pubblicazione, che, per ordini superiori, fu mandata al macero...”. Ci volle tutta la testardaggine di Curcio per insistere e ricominciare daccapo nel dopoguerra la sua opera editoriale. Attività che non gli impedì di coltivare altri svaghi di tipo intellettuale. E dicasi svago in senso non limitativo. La sua attività teatrale, ad esempio, aveva una rilevanza di qualità dal punto di vista artistico. Negli anni quaranta e cinquanta, infatti, ancora sull’onda della retorica risorgimentale prima e fascista successivamente, il dialetto era considerato un genere inferiore ed osteggiato, guardato peraltro con sufficienza dalla critica. Con il tempo, invece, si sta sempre più rivalutando l'esperienza del teatro dialettale come lingua autenticamente drammaturgica rispetto ad un italiano più letterario che teatrale. L’opzione di Curcio è verso una parlata mista italiana-napoletana, comprensibile a coloro che napoletani non sono e che però arricchisce la lingua italiana di tutta la vivace pastosità del suono partenopeo. Molte sono state le commedie di Curcio viste e rappresentate: Lionello e l’amore, La diva del cinema, Ci penso io, Le barche vanno da sole, I casi sono due, La fortuna con l'effe maiuscola, Casanova farebbe così, Cera una volta un compagno di scuola, L'onesto venditore d'uccelli. Ma di lui si ricordano anche delle riviste (genere oggi fuori moda, ma quarant'anni fa in gran voga) come Tarantella napoletana e Funiculì funiculà. La scelta di celebrare il ricordo di Curcio con A che servono questi quattrini? scaturisce dal fatto che questa è sicuramente la più celebre e la migliore tra le commedie dell’intellettuale napoletano. La più celebre per le rappresentazioni date da nomi illustri a cominciare dal debutto che avvenne nel 1939 al teatro Quirino. A metterla in scena furono nientemeno che i fratelli De Filippo, Eduardo e Peppino che, secondo quanto annotava Leonida Repaci in una delle sue cronache teatrali, riscossero un grande successo tra il pubblico visto che “ogni loro battuta (dei De Filippo ovviamente) era spezzata dalla clamorosa ilarità degli spettatori come un'onda del frangente”. Fu ripresa un paio di decenni più tardi da Peppino De Filippo napoletano (genere non da poco nella tradizione del teatro nostrano). Un teatro nel quale comicità non fa rima con facilità. Far ridere non è semplice. Sono commedie, queste, costruite sui tempi, ad orologeria, nei quali una battuta in ritardo perde l'effetto umoristico e dove solo l'artigiano del palcoscenico riesce a fare centro: colui cioè che si è guadagnato la stozza dell'attore rischiando sul proscenio in prima persona, mai millantando, sempre esponendo sé alla risposta del pubblico, inappellabile ed ineludibile: far ridere oppure no. In tempi in cui il teatro si rifugia sul sicuro, sul televisivo (che poi a giudicare dai riscontri di pubblico ottenuti dai personaggi televisivi che si improvvisano attori tanto conveniente non è) tornare ad un teatro d'attore, immediato e spontaneo è un atto di coraggio. Protagonista di questa commedia è un personaggio classico del mondo comico-napoletano: un marchese squattrinato di nome Eduardo Parascandolo. Subito la mente va a certi film di Totò e ai suoi imbrogli per vivere di credito ed in funzione del suo blasone. Parascandolo è un Totò più colto che per giustificare l'espediente al quale fa ricorso per sopravvivere fa appello ai suoi studi, peraltro approssimativi, di filosofia. Conclusione alla quale è giunto dopo una vita dissipatrice ed anarcoide, è che i quattrini non servono a niente: conta solo il credito. Appiglio ideologico per tale massima lo trova nei filosofi greci e lo esemplifica in una battuta esilarante: “Guardate Socrate, Platone, Diogene: non facevano niente, ma lo facevano in modo perfetto”. È proprio questo il traguardo della sua particolare ascesa, itinerarium che vuole trasmettere anche al suo fido discepolo, l'altro protagonista della commedia di Curcio: Vicenzino, un onesto artigiano che ingenuamente abbocca alle grossolane e paradossali indicazioni di vita che il maestro gli offre. In fondo però, tanto grossolane non sono queste teorie perché allorquando il marchese afferma: “A che serve il lavoro se, nel mondo, solo chi ozia guadagna milioni? La mente corre a quello che è successo qualche settimana fa nel mercato finanziario mondiale. La tempesta di Wall Street e le sue ripercussioni sulle borse di tutto il mondo hanno reso chiaro il fatto che a decidere dell'andamento del denaro, sono proprio quelli che non lavorano, i grandi finanzieri e i grandi speculatori, coloro che appunto vivono di credito. E così lontano il vero dalle tesi a prima vista assurde del marchese Parascandolo? Sarà un escamotage di quest'ultimo a dimostrare a Vicenzino di come si possa vivere grazie all’apparire, al far credere, alla menzogna che da menzogna si trasforma in vero e certo: cioè in denaro. Il cerebralismo di Parascandolo è stato paragonato a quello dei personaggi pirandelliani: in realtà il cerebralismo della commedia di Curcio è funzionale all'unica cosa che interessava veramente all' autore: far ridere il pubblico. Ciò non toglie che tra le righe, non essendo Curcio uno sprovveduto, rilucono altri argomenti impegnativi e scottanti vista la situazione nella quale la commedia fu scritta ed il particolarissimo momento. Non volgare farsa quindi, ma sottile abilità di dosare il comico ed il “vero” sociale comune ad ogni luogo e tempo: la rincorsa al denaro, il mito dell'arricchimento facile. Il vivere al di sopra delle proprie possibilità.
Come si arguisce, gli elementi che si insinuano nella commedia sono molti ed anche il divertimento, lo assicuriamo, è molto. Il tutto per ricordare che con Curcio si celebra una figura di “filosofo” questo sì vero, figlio e naturale erede di quell’illuminismo napoletano. Equilibrato, sornione e graffiante al contempo, di cui troppo spesso ne trascuriamo l'importanza ed il valore e che dà lustro ad una città sovente ricordata per tutt'altri fenomeni e che invece continua ad essere, a tutt'oggi, serbatoio inesauribile di intelligenze e di talenti artistici di valore assoluto.
Ed è per questo, che, anche se nel mio piccolo desidero continuare la sua idea e soprattutto continuare la sua Napoli ed i suoi napoletani, con le tante risate che lui aveva creato per loro.
MARINA CURCIO