La compagnia dialettale I LEGNANESI presenta:
I Pover Christ Superstar (1973)
Novità in due tempi di Felice Musazzi
- Interpreti: Felice Musazzi, Tony Barlocco, Renato Lombardi, Luigi Campisi, Giuseppe Parini, Angelo Mortarino, Luigi Zoni, Lino Mario, Carlo Cordieri, Vittorio Turri, Ciro Bassanesi e la Compagnia de I LEGNANESI
- Musiche: Fanciulli
- Coreografie: Tony Barlocco
- Scene: Angelo Poli
- Costumi: Cino Campoy
- Regia: Felice Musazzi
Programma di sala (pagine 40)
- Tradizione e anarchia (Alberto Arbasino)
- Primo - Secondo tempo
- Le canzoni
- Fotografie
Dal “CORRIERE DELLA SERA” DEL 23/11/1970
TRADIZIONE E ANARCHIA di Alberto Arbasino
"Tucc per un pomm?” esclama esterrefatta la Teresa cacciata dal Paradiso terrestre a metà del Genesi: “e se l'era un'anguria?”. E poco dopo, trovandosi in piena Norma come mamma della protagonista, scruta diffidente la corazza di Pollione: “Chissà quant lavurà col sidol ...”. E intanto le sue vicine di cortile, massaie-astronaute legnanesi in tuta spaziale e borsa della spesa, appena sulla Luna cominciano subito a sparlare dell'amica rimasta a bordo: “Ouela là la voeur semper sta sù a schiscià tuti i butùn!”... E più tardi nel vecchio cortile di campagna la porta dell'unico gabinetto vien portata via da due capelloni mandati dal padrone che vuoi sfrattare tutti dalla cascina per costruire coree per gl'immigrati terùni... mentre nei macelli, alle catene di lavorazione degli ossibughi e delle bistecche i sorveglianti prendono i tempi, i cottimi si restringono, le operaie si tagliano braccia e gambe a vicenda e tornano a lavorare dopo essersele riattaccate con lo scotch, e dopo quarantacinque anni di servizio una vecchia ormai distrutta riceve con la medaglia d'oro il bacio del padrone, e i rimproveri delle altre vecchie per averlo ricambiato (e risponde che dopo tutto, invece della medaglia, quello poteva anche darle uno schiaffo).
Ormai famosissime, le avventure dei Legnanesi continuano a proliferare picaresche e inesauribili come negli anni lontani quando Teresa e Mabilia tornavano in motorino da una balera dove la Mabilia era stata eletta Miss, ancora con la fascia blu, e mancava la benzina in mezzo a un campo, e le due si accapigliavano furiosamente perchè la figlia diceva alla madre che è poco fine buttarsi sotto tutti i tavoli per raccogliere le capsule della birra, e la madre ribatteva che a questo mondo tutto può venir buono... E cominciavano a spingersi fino a Milano: e dopo una giornata alla Fiera arrivavano in largo Cairoli; ma non riuscivano poi a trovare il centro... E finalmente, alla Scala, durante gli applausi, la Teresa gridava ai palchetti di sopra di non batter troppo le mani “perchè vegn giò la tera!”... ma non riusciva a dimenticare quel suo viaggio all'Arena di Verona, per una Alda fascista, col treno popolare, e la sua anguria in braccio... E ormai, dopo un decennio abbondante di folli invenzioni teatrali e di successo popolare smisurato, sviluppati insieme come saga o rapsodia ininterrotta, questa Compagnia Legnanese delirante e indistruttibile come la Teresa finisce per apparire - suo malgrado - come il fatto spettacolare più cospicuo (e più originale) della nostra epoca.
Felice Musazzi e la sua incredibile troupe e la sua straordinaria drammaturgia verranno poi “scoperti” o “rivalutati” dagli eruditi futuri, com'è normale che capiti ai Petrolini e ai Ruzante. Però la Critica della Cultura più aggiornata e scientifica ne autorizza fin d'ora una “lettura” contemporanea perfettamente omologa agli entusiasmi classisti del pubblico popolare. Ma la coincidenza non può sorprendere, giacchè gli strumenti critici saranno i medesimi di Lukacs, di Gramsci, di Brecht.
Non valgono infatti per i Legnanesi i criteri di giudizio applicabili di solito allo spettacolo “colto” o “fine” che generalmente funziona come elegante importazione dei modelli e delle maniere di Broadway e Berlino, Londra e Parigi, Mosca e Praga. Non saranno davvero chic, i Legnanesi: non sono distributori di whisky e salmone delle migliori marche estere (come i teatranti borghesi di venti anni fa), bensì produttori diretti di barbera e polenta. Però la “cultura nazionale-popolare” non significa né provincialismo né autarchia: si sviluppa generalmente autonomia, dall'interno delle masse proletarie (Gramsci diceva proprio “dal basso “).
Brecht sapeva molto bene tutto questo. Indifferente alla “tradizione di casta”, anti-libresco per partito preso, ma tutt'altro che provinciale o autarchico, non inaugura la sua drammaturgia con riagganci illustri, con importazioni dalle Capitali dello Spettacolo, con ammicchi alle squisitezze di Hofmannsthal o di Max Reinhardt. Si rifà invece deliberatamente al cabaret e alle “comiche” dialettali di Karl Valentin, “il Totò bavarese”: come Chaplin (che però nel musichall era nato).
In ogni stagione i nuovissimi spettacoli di travestiti si paragonano a Londra coi fasti del teatro elisabettiano, coi famosi ragazzi di Shakespeare specializzati nelle parti di Ofelia e Desdemona; mentre a Parigi i riferimenti batteranno piuttosto sulle tecniche di rivolta e rifiuto in Genet e Artaud... Nel nostro paese, evidentemente, i soli precedenti tradizionali saranno le recite della Settimana Santa negli oratori della Brianza, coi bambini dell'asilo abbigliati identici agli angiolotti dei Sacri Monti, e con la Maddalena soffocata da parrucche di barba di meliga per evitare che si riconosca il sacrestano. Però quegli oratori rappresentano una maglia non trascurabile nelle strutture della società e del potere in Italia: a differenza del Globe shakespeariano, hanno sempre formato più uomini di governo e d’industria che non di teatro.
Così, il solo “genere” teatrale genuinamente più nostro dopo il melodramma ottocentesco sarà inevitabilmente la “rivista all'italiana” adottata dai Nostri coi suoi fasti sgangherati e i suoi sketches villani e gli sfrenati quadri coreografici senza nesso coi “siparietti” che li collegano. E il mito persistente di Wanda Osiris al Lirico! In questo “veicolo all'italiana” proletario e immutabile i Legnanesi viaggiano portando la propria “situazione” fondamentale (il cortile, la fabbrica) e le proprie “maschere” fisse (come nella commedia dell'Arte), ma con una portentosa capacità d'installarsi in qualunque altra situazione (il Polo Nord, la Madama Butterfly, il carnevale di Rio, lo sciopero, il monsense, l'Aida, la risaia) trascinandola interamente dalla propria parte e ridimensionandola immediatamente sulle proprie misure litigiose e dispettose e grandiosamente grottesche.
Farsa e furore sono per loro inscindibili. Secca, irosissima, perfida disperata, la Teresa esce da tutte le carestie e pestilenze dei secoli lombardi come una Madre Coraggio arrabbiata, sopravvissuta solo per la furia inesausta della sua collera, con una fame atavica e una bestiaccia spelata al collo, sgangherto ludibrio di ogni status symbol. La Mabilia, sua figlia, svampita e robustissima, appare invece come un risultato emblematico dei mass media visti dalla parte del fruitore brianzolo: le prime minigonne, le volpi fatte in casa, midi e cappello in fabbrica, tacchi a spillo nei campi, televisione e rotocalchi parodiati come agenti di dissennatezza attraverso i pochi miti che si riesce a decodificare (fraintendendoli tutti). Gli uomini non contano, e non parlano.
Il coro cannibalesco delle vicine ingigantisce dunque con incessanti sarcasmi la feroce frizione tra la collera “storica” della Teresa e la follia “neocapitalistica” della Mabilia, in esplosioni irresistibili di anarchia “di transizione” aizzate dalla loro eterna nemica: l'orren· da Chetta, sorvegliante spietata e implacabile spia del padrone (“al lavoro! al lavoro!” strilla, “viva il Padrone! ci dà troppi soldi! troppi! troppi!”), però anche vittima ricorrente di tutte le patetiche disillusioni delle mezzosoprano da melodramma... Così la vicenda apparentemente privata e farsesca delle tre assatanate e delle loro nemiche finisce per esprimere costantemente i problemi concreti e l'ideologia stessa di un'intera collettività proletaria che - come per dar ragione a Lukacs e a Goldmann - fornisce a un proprio autore non soltanto molti spunti folkloristici ma addirittura una visione del mondo “totale” come espressione rappresentativa di un certo gruppo sociale di un momento storico determinato... fino a parlare - praticamente - da sè ...
AI di là dell'enorme divertimento dialettale, infatti, nessun autore italiano moderno (nemmeno nella letteratura e nel cinema) ha saputo parlare dall'interno di una classe sociale, e con tanta precisione, di fabbriche, cottimi, tempi, mutue, indennità, catene di montaggio, cartellini da timbrare. casse integrazione, buoni mensa... o di scioperi non favolosi nel tempo e remoti nello spazio... Sovente, infatti, la nostra cultura attuale fa (con buon gusto) dei rimproveri a Hitler per i campi di sterminio, o a Salazar per il colonialismo; e protesta (ai festival) per gli sfruttati esotici e gli oppressi pittoreschi. Però non conosce granchè molti problemi assai simili a pochi chilometri da Milano; e dunque non se ne occupa. Coi Legnanesi, invece, per la prima volta il proletariato lombardo parla di sè, con la propria voce, e illustra con efficacia incomparabile i conflitti (drammatici e talvolta ridicoli) tra la vecchia anima popolare e le alienazioni più moderne. Direi che è questa la molla principale del successo di questa compagnia.
Alberto Arbasino