Teatro alla Scala di MIlano presenta:
Tosca (1950)
Dramma in 3 atti di Vittorien Sardou, Luigi Illica e Giacomo Giacosa - Musica di Giacomo Puccini
- Interpreti principali: Zinka Milanov (Tosca) Roberto Turrini (Cavaradossi) Giuseppe Taddei (Scarpia) Carlo Badioli (Sagrestano) Giuseppe Modesti (Cesare)
- Maestro Concertatore: Nino Sanzogno
- Regia: Mario Frigerio
- Maestro del coro: Vittore Veneziani
- Scene: Ugo Serafin
- Direttore allestimento: Nicola Benois
Introduzione allo spettacolo
Mentre Manon e Bohème illustrano l'inadeguatezza della designazione di "verismo" a definire il contenuto e il significato dell'arte pucciniana, Tosca sembra invece infirmare tale constatazione ed ascriversi senza possibili riserve al repertorio dell'opera verista. Già la scelta dell'argomento, attinto al teatro di Sardou, dimostra l'intenzionale accostamento al melodramma verista. Due anni prima Umberto Giordano aveva con la Fedora tentato analogo accostamento a questo teatro, realizzando un'opera alla quale arride tutt'ora molta fortuna. E non è meraviglia che anche Puccini pensasse di volgere la sua prora verso quelle acque, assistito dalla collaborazione librettistica di due esperti conoscitori della scena quali Illica e Giacosa. Il successo che coronò il tentativo mostrò fino a qual segno rispondesse alle esigenze dei gusti correnti. Rappresentata al Costanzi di Roma il 14 gennaio del 1900, Tosca ottenne un esito felicissimo, e fu riprodotta nel volgere di alcuni anni su tutte le maggiori scene del mondo. Tosca è veramente concepita nello spirito dell'opera verista, per la ricerca dell'effetto scenico a forti tinte, per l'evidenza realistica di ogni particolare, per la violenza dei contrasti e l'urto brutale delle passioni. Ma se ci domandiamo ove risieda il pregio artistico dello spartito, dobbiamo ancora cercarlo in quelle pagine in cui l'autore riesce a svincolarsi dall'immediatezza della contingenza scenica e a librarsi sull'ala del suo trepido e personale lirismo. Perciò delle tre figure centrali, se quella di Scarpia, una reincarnazione di Barnaba e di Jago esteriorizzata nella tea-tralità della frase e dell'atteggiamento dal quale deriva la sua efficacia rappresentativa, sembra la meno consentanea alla natura del compositore, Tosca e Cavaradossi fruiscono invece della verità schietta e profonda di molti di quei genuini accenti pucciniani che hanno virtù d'imprimersi indelebilmente nei cuori delle moltitudini d'ogni paese.
Il primo atto inizia con il famosissimo "Recondite armonie...", cui fa riscontro nel terzo atto il non meno famoso "O dolci baci, o languide carezze..." l'uno e l'altro delizia di tutti i pubblici. Il cavalier Mario Cavaradossi dipinge una Madonna nella chiesa di Sant'Andrea della Valle, ritraendo le sembianze della Marchesa Attavanti, che ha visto pregare e che paragona alla diversa bellezza di Floria Tosca, cantante acclamata e ardente amatrice, che in breve sopraggiunge affascinante, carezzevole, suaditrice di notturne ebrezze, inquirente per implacabile gelosia, intonando un altro dei brani più fanosi e cari al pubblico: "Non la sospiri la nostra casetta...". Il duetto ha la grazia e la gentilezza che Puccini sempre sa ritrovare quando parla d'amore. Ma il barone Scarpia, capo della Polizia, che alla crudeltà congiunge una lascivia priva di scrupoli, ha posto sulla bella cantatrice il suo occhio rapace. Quando Cavaradossi presta aiuto ad Angelotti, un prigioniero politico fuggito da Castel Sant'Angelo, esulta trionfante perchè Tosca non potrà più sottrarsi al suo desiderio se vorrà salvare l'amante: "Ella verrà per amor del suo Mario...". Il secondo atto, dominato dall'azione di Scarpia, che fa porre Cavaradossi alla tortura per strappargli la confessione del luogo ove l'evaso si nasconde, racchiude la perla melodica dell'opera, la preghiera che Tosca innalza nel suo strazio supremo e con la quale tenta invano di toccare il cuore di Scarpia. Ma questi non desiste dal suo spietato proposito. Poichè Tosca, non potendo resistere alla vista dei tormenti a cui il suo Mario viene sottoposto, ha svelato il nascondiglio del prigioniero, confermando così la complicità di Cavaradossi, pone la donna implorante dinnanzi al dilemma o di abbandonare l'amante al capestro o di concedersi al persecutore che solo a questo punto si finge disposto a salvarlo, sebbene in realtà, con l'inganno di un ordine ambiguo impartito a Spoletta non faccia che mutare la pena nella fucilazione. Stretta inesorabilmente tra l'amore e lo spasimo della riluttanza, Tosca sembra piegarsi all'infame ricatto, ma mentre Scarpia le scrive un salvacondotto che le consentirà di cercare altri cieli ai suoi amori, s'impossessa furtivamente di un coltello e lo colpisce a morte.
Il terzo atto si apre con un episodio soffuso di delicata poesia, il risveglio mattutino fra il suono delle campane e il canto del pastore, episodio che fa degno riscontro all'inizio del terzo atto della Bohème, rivelando in Puccini una sensibilità capace di un delicato impressionismo coloristico, materiato di risonanze tutte interiori, senza nulla di estrinseco e di decorativo. Nel resto dell'atto, ove assistiamo all'incontro di Mario con Tosca che gli rivela l'uccisione di Scarpia e gli promette prossima la liberazione, all'esecuzione della sentenza che Tosca crede finta e alla quale ha predisposto l'amante incuorandolo alla simulazione, alla morte di Mario e al suicidio di Tosca che si getta dall'alto del bastione, sfuggendo agli sgherri che hanno scoperta la morte di Scarpia ed accorrono per arrestarla, contiene altre pagine pregevoli, come il delicatissimo "O dolci mani, mansuete e pure..." che Mario intona alla rivelazione dell'omicidio compiuto dalla donna gentile e amorosa, con accento trepido di commozione.
A.C.