Arena di Verona presenta:
Tosca (1956)
Melodramma in tre atti di Victorien Sardou, Luigi Illica e Giacomo Giacosa. Musica di Giacomo Puccini
- Interpreti principali: Gigliola Frazzoni (Tosca) Franco Corelli / Giuseppe Di Stefano (Cavaradossi) Tito Gobbi (Scarpia) Paolo Montarsolo (Cesare) Mariano Caruso (Spoletta)
- Maestro Concertatore: Antonino Votto
- Regia: Carlo Maestrini
- Maestro del coro: Giulio Bertola
- Scene: Virgilio Marchi
- Costumi: Maud Strudthoff
- Direttore allestimento: Cesare Mario Cristini
Programma di sala (pagine 74)
- La musica (Franco Donatoni)
- Gli spettacoli in cartellone
- Le 33 stagioni liriche dal 1913 al 1955
- Il libretto
- Gli interpreti
- Fotografie
LA MUSICA
Ad un giornalista che aveva raccolta la voce che Puccini avesse in animo di musicare un libretto storico, e di azione più o meno eroica (non era ancor iniziata, allora, la composizione della Fanciulla del West) il Maestro rispondeva candidamente:
”Ma che eroi, che grandi figure memorabili! Io non ci faccio con codesta roba. Non sono un musicista di cose grandi: sento le cose piccole e non amo trattare d’altro che di cose piccole. Mi piacque Manon perchè era una cara ragazza piena di cuore e niente più; mi piacquero quei quattro straccioni della Bohème perchè erano cari ragazzi spensierati ma affettuosi senza la pretesa di metter soggezione a nessuno; e m'è piaciuta Butterfly perchè è una piccola donnina che sa amare tanto da morirne, e se sa morire come una “grande figura della storia”, è pur sempre una donnina fragile e carina come un giocattolo del suo paese e senza pretese anche lei”.
Di queste parole, dettate da un animo schietto e semplice, non si può non tener conto senza il pericolo di incorrere nei consueti quanto facili pregiudizi in cui spesso è caduta la critica di mezzo secolo fa, e non soltanto quella. Pur senza avere la pretesa di tentare qui una valutazione estetica dell'opera pucciniana, mi è sembrato opportuno citare le parole dell'autore di Bohème per poter meglio accostarmi a quell'esperienza teatrale che, a mio avviso, appare ancor oggi una delle meno felici del primo periodo creativo di Puccini. La Tosca, tratta dall'omonimo dramma di Sardou e ridotta a libretto da Illica e Giacosa, andò in scena per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900. Le cronache del tempo parlano di “freddo successo” alla prima rappresentazione, ma di “calorosi consensi” sempre rinnovatisi ad ogni successiva replica Difficile sarebbe scoprire in sede critica i centri propulsori, i nuclei generatori di quest'arte pucciniana già pur tanto aderente, nella Manon Lescaut e nella Bohème, ai moti sentimentali più semplici e comuni dell'uomo, ma pur tanto personalmente stilizzata e idealizzata da raggiungere in teatro quella universalità che tutti ben conosciamo. Mi sembra, infatti, che le parti migliori dell'opera siano quelle in cui l'arte del compositore si è potuta rivelare nella sua naturale semplicità, quelle in cui l'artista non ha avuto bisogno di “alzare la voce”. D'altra parte, non aveva forse torto Luigi Torchi quando scrisse: ”un aumento musicale nella espressione tragica dal dramma di Sardou è una impossibilità estetica”. Sicuramente si può affermare che Puccini fosse, in quel tempo, il musicista meno adatto a cimentarsi con quel dramma violento senza incorrere nel pericolo di cadere nell'enfasi di certi atteggiamenti che difficilmente sarebbero stati accettati come valida espressione di tragicità. Né vale soffermarsi sulla validità del dramma di ogni singolo personaggio. Qui preferisco lasciare la parola al Torchi - critico intelligente e acuto e degno, perciò, del massimo rispetto - il quale dedicò alla Tosca, dopo la sua prima rappresentazione, un esauriente saggio pubblicato dalla Rivista Musicale Italiana, scrive il Torchi:
“Tosca... appare spesso senza forza tragica: in lei mancano le note di una passione disperata, i deliri della gelosia, lo schianto di un'anima abusata, le trame della vendetta. In lei cantano dolci note in povera favella Essa non ha l'entusiasmo lirico delle sue rappresentazioni, ma a queste ella è come indotta, e vi si contempla troppo spesso calma e sfiancata”… ”Cavaradossi. dopo la romanza del primo atto (ch'è la sua lirica migliore), canta di gloria, di amore, di vendetta: una grande compassione si accumula sulla sua persona, quando appunto la melodia, oltre che di un sensibile aumento nelle prime espressioni di lui, amante felice, manca dell'intonazione disperata ed eroica che le è indispensabile per impressionare”… “Scarpia canta d'amore con un'enfasi che non conviene al suo carattere: troppa lirica, troppa soavità”.
L'invenzione melodica - a prescindere dalla individuazione vocale di ciascun personaggio - mi appare peraltro, come altrove, schietta e sentita; mai appariscono contorsioni, non ambizione soverchia, non isterica voglia di riuscire nell'astruso, nel capriccioso, nella originalità ad ogni costo, nella stravaganza (chè Puccini era, bisogna dirlo, assai attento alle manifestazioni più valide della musica nuova d'oltr'alpe e non disdegnava d'ammirare musicisti che si muovevano in orizzonti a lui del tutto estranei, ma non per questo ignoti). Basterà, quindi, citare, come i “momenti” migliori dell'opera, il notissimo E lucean le stelle, il “risveglio di Roma” del terzo atto e quell' “andante amoroso” che si svolge sulle parole Amaro sol per te m'era il morire con un indovinato accompagnamento dell'arpa sugli accordi di legni. Se talvolta appaiono elementi atti a formare falsa materia di divagazione musicale - vorrei citare in proposto alcune enfatiche perorazioni orchestrali - o, addirittura, vere e proprie concessioni che l'istinto dell'artista fa al cattivo gusto del pubblico (basti ricordare la “Cantata” del secondo atto - testimonianza evidente di una consumata abilità teatrale, ma non di eguale impegno musicale drammatico - e la barocca frase per soprano e tenore, all'unisono e senza orchestra, nel duetto dell'atto terzo), ciò si dovrebbe attribuire ancora una volta, a mio avviso, più ad una mancata individuazione della “dimensione” di ogni singolo personaggio nel dramma che cede così il posto, talvolta, a retorici “gesti” musicali e a qualunque vociferazione “ad usum populi”, che ad un debole senso della misura e di quell'equilibrio formale che non possono in nessun modo essere negati all'arte del nostro autore. Poiché il teatro pucciniano mi appare ancor oggi come un raro esempio della laboriosa opera di un musicista di grande genialità che sa essere conscio dei suoi limiti e vuole che la sua arte comunichi soltanto ciò che deve e può realmente comunicare, proprio in virtù della sua pur limitata dimensione umana. E ancor oggi, a più di trent'anni dalla morte del maestro, si può ben dire che Puccini è stato veramente la formula artistica più universale - non parlo ora nel senso estetico ma nel senso geografico - che l'Italia abbia mai prodotto dopo la generazione di Verdi. Nelle orchestrine dei transatlantici e negli organetti dei suburbi, nei grammofoni delle ville e nelle fisarmoniche degli emigranti, negli alberghi e nei cinematografi, nelle sale di concerto e nei locali notturni, troviamo ancor viva la testimonianza di questa sua arte, e di questa sua piccola - ma schietta e sincera - arte borghese.
FRANCO DONATONI