Da Teatro del Giorno - N. 7/8/9 - Luglio - Agosto - Settembre 1950:
- Maria Melato
Autore: Renato Cannavale
MARIA MELATO
Ho qui, dinnanzi o me, tra gli altri ricordi una delle sue ultime lettere. Mi scriveva da Forte dei Marmi il giorno delle Ceneri quattro anni or sono. Aveva letto un mio romanzo: “in questo silenzio, in questa solitudine che mi è cara, tanto cara, ho profondamente meditato il suo libro. Ma è così davvero la vita come lei la descrive?”. E quella solitudine, quel silenzio a Lei, tanto cari l’avvolgono ora per sempre. «Oh, la terra com'è cattiva... non lascia discorrere poi”. Ed in un'altra, “Penso alla mia arte, fatta di passione, di sentimento, di cuore e mi domando se a Lei che vede la vita nel suo più spietato realismo io possa essere sempre piaciuta...”. Un tremito, un’ansia di bambina timida che tema di fare qualcosa di spiacevole ad alcuno. La sua anima, era tutta nella dolcezza della sua voce, quella voce che ancora qualche anno fa faceva fremere di commozione nella parte di Mila di Crodo “La fiamma è bella! La fiamma è bella!”. Ed era stato davvero un fuoco sacro, quello che l’aveva divorata senza soste per una vita intera. Era stata la maggiore esponente del teatro romantico e borghese e non sapeva rassegnarsi, a quest'epoca di distruzione, di male, di morte. “Fra poco non potranno più comprendermi” diceva sovente ed era questo il suo più grande sgomento. Una sera dalla terrazza dell'Excelsior, contemplando uno dei nostri insuperabili tramonti disse trasognata “Io sono rimasta col cuore alla Napoli Di Giacomo”. Forse pensava le innumerevoli carrozze ferme fuori l'ingresso del teatro, forse pensava i giovani monocoluti e coi baffi alla Menjou, pensava le pallide dame che sognavano l’amore al chiaro di luna e ne soffriva. Il giorno che lesse un mio articolo sul “Giornale” di Napoli su di lei, si trovava per una breve tournée nella nostra città, me ne mandò una copia a casa. Col rossetto mi aveva segnato un passo: “c'è nella sua arte ormai il panico di chi si aggrappa disperatamente a qualche cosa di caro con la certezza di perderla. E’ l'amante che ama con tutto l'ardore temendo di essere presto abbandonato”. E ai margini della pagina di suo pugno queste parole: “Lei è cattivo. Mi ha fatto piangere. Perché ha detto queste brutte cose di me? Se dovessi crederle davvero, ne morrei di dolore”. Oggi soffro davvero di questa mia cattiveria involontaria dovuta a certe necessità professionali che talora, non sanno perdonare. Perché Maria Melato aveva bisogno di credere con la sua istintiva ingenuità in quella sua arte fatta “di cuore, di passione, di sentimento”. Non poteva, non accorgersi che il tempo nemico implacabile di ogni umana bellezza, stava per travolgerla inesorabilmente. Forse la Morte le è stata benigna e pietosa. Quella morte che a noi, sinceramente devoti alla sua persona, ci appare crudele, l’ha salvata dal dolore più grande, dalla malinconia più atroce di conoscere i piccoli teatri di provincia dove la necessità rabbercia alla meglio una brutta copia di quella che fu una grande creazione. E “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria”. Così il suo ricordo resta ancora vivo e palpitante e bello come la sua voce che ad onta degli anni era ancora come una carezza di vento, come i suoi occhi che erano ancora vivi e sorridevano con la luce di vent'anni, quando le offrivo un'orchidea ed il suo volto sfiorito, si illuminava di una intima gioia. E quelle mani parlacee e miracolosamente giovani si lasciavano baciare con una grazia ottocentesca. La Morte l’ha salvata, in tempo, dalla spietata crudeltà degli uomini che amano vedere i loro idoli crollare giù nella polvere. Così, no. Restano nel bronzo eterno dell’arte le cento e cento creature cui ella diede vita, e cantano con mille bocche, con mille anime l'eterna canzone della sua bellezza che non conobbe tramonto.
RENATO CANNAVALE