LUIGI ILLICA
Luigi Illica Nato a Castell'Arquata (Piacenza) il 9 maggio 1857. Ebbe una giovinezza avventurosa e scapigliata fin verso i vent'anni, quando iniziò la sua collaborazione al “Corriere della Sera”. Nell'81 si trasferì a Bologna per fondarvi un giornale patrocinato da Giosué Carducci; due anni dopo si rivelava autore drammatico con “I Narbonnerie La Tour”, scritto in collaborazione con Ferdinando Fontana. “L'ereditaa del Felis” - la sua opera migliore - venne rappresentata la prima volta al Filodrammatici di Milano nel settembre del 1891. Illica svolse anche con molta fortuna attività di librettista, fornendo a Puccini, Mascagni e Giordano una degna base letteraria alle loro opere più note. Morì a Colombarone (Piacenza) il 16 dicembre 1919.
Quando appariva, con il cappello che, nella foggia moderna, mostrava una certa voglia di assomigliare al feltro spavaldo d'un moschettiere, con quella guardatura tra gaia e feroce, e la barbetta, e, dietro la guancia sinistra, il mezzo orecchio che gli era rimasto dopo un duello bolognese nel quale ebbe a padrino Giosuè Carducci, egli si rivelava quello che fu in giovinezza: un uomo dagli impulsi travolgenti, inquieto, intemperante nell'azione e nella parola. Tipo singolarissimo, formatosi in quest'ultima “bohème” lombarda dei Fontana e dei Ghislanzoni, e in quel giornalismo pittoresco e bersagliere nei Cavallotti e dei Bizzoni, attratto verso il verismo in pieno romanticismo, e avendo tutti gli atteggiamenti romantici. Ingegno ricco e incomposto, fertile e chiassoso; uomo di teatro nato, non affìnatosi, ma esercitato a tutte le scaltrezze dell'effetto scenico; spirito capace di alti entusiasmi e di crudeli scetticismi, pronto a passare dalla più calda affettuosità alla più bollente ira: irresistibile nella burla bonaria, potente nel sarcasmo; incapace di tacere o di temperare la sua opinione, qualunque essa fosse. La sua vita s'era ormai raccolta in una certa solitudine di signore campagnuolo. Viveva tra i suoi possedimenti di Castellarquato, architettando libretti; a Milano veniva ormai di rado. Ma la sua vita, se declinò in una certa tranquillità di spirito, fu tutta tempesta. Fu, prima di tutto, festosissima nella povertà. Il giovane, giunto prima dell'ottanta a Milano a cercarvi fortuna nel giornalismo e nelle lettere, era più squattrinato e più spensierato degli eroi di Murger. S'era allogato in casa d'un calzolaio; e, per scaldarsi, nei giorni d'inverno, bruciò furtivamente tutti i modelli in legno di scarpe antiche che il suo padrone di casa possedeva; e ce n'erano anche di curiosamente storici. Nè si limitava a bruciare il museo degli stivali; aggiungeva una serena indifferenza davanti alle richieste del pagamento del fitto: anzi, invece di pagare, chiedeva, con molta naturalezza e persuasione, prestiti continui. Tanto che, un giorno, Crispino dichiarò che non avrebbe più dato un soldo. Illica rispose che aveva ragione in massima, ma torto nella fattispecie; e che tagliare il credito a lui era oltraggiare un gentiluomo. Protestò che avrebbe chiesto ancora danaro, ma che la sua dignità gli impediva da quel momento di accettarlo senza rilasciare il corrispettivo d'una cambiale. Allora i giorni e le ore furono pieni di bizzarre cambiali: cambiali di 15 centesimi per due sigari, cambiale di 20 centesimi per un caffè... Esisteva, a quei tempi, il Caffè del Teatro Manzoni, sonoro di discussioni, di beffe e di baruffe, pieno di comici, di autori e di matti di buonumore. Era il Caffè di Felice Cavallotti e di Fulvio Fulgonio. Illica lo riempì della sua esuberanza, della sua vivacità polemica. Vi leticò fieramente con il Cavallotti, suo amico di prima; e il dissidio si trascinò lungamente nei giornali, con acerbi episodi di ingiurie, complicandosi e generando duelli. Il tumulto si riversava, da quelle salette memorabili, nei teatri, alle prime rappresentazioni. Le prime rappresentazioni delle commedie di Illica furono sempre clamorose; quando egli cadde, cadde tra dibattiti accaniti, davanti a un pubblico diviso che s'ingiuriava e si minacciava. Alcuni episodi si ricordano ancora: alla prima di “Herik Arpad Tékeli”, mentre un'attrice chiedeva angosciata al suo amante: “E che faremo di questo nostro amore?” la platea le gridò: “Mettetelo arrosto!”. Pure quel teatro di Illica, appassito e morto assai presto, aveva una certa grandiosità di struttura, mezzo alla Scribe e mezzo alla Sardou, e un certo desiderio di rappresentare nei personaggi l'intera classe sociale alla quale appartenevano, che dimostravano nell'autore una interessante immaginosità e, per lo meno, il presentimento di forme d'arte maggiori e più difficili. Ma allo scrittore mancavano l'originalità del pensiero e la conoscenza seria dei problemi che pure intuiva superficialmente e definiva con una certa enfasi. Certo le sue commedie, piene di echi di altre commedie, nascevano da una disordinata ispirazione; e alcune di esse trionfarono, come “I Narbonnerie La Tour”. Egli tentò, quasi sempre con la collaborazione di Ferdinando Fontana, tutti i generi, la commedia politica con “La sottoprefettura di Roccanecca” (nella quale pose in scena il prefetto di Milano, Basile), e il quadro sociale, con “Gli ultimi Templari“, che rappresentarono, un po' ammanierata ma con bei tratti di forza di passione e di colore, l'aristocrazia romana. Di molte altre commedie mi sfugge il titolo, ma bisogna ricordare quella che fu giudicata l'opera più bella e più artistica di Illica, “L'Ereditaa del Felis”, commedia di ardita e sottile verità psicologica, l'unica veramente sobria che sia uscita dalla sua penna. Ma ad un tratto la febbrile attività del commediografo si arrestò, e Luigi Illica si diede a comporre, con una facilità e una varietà inesauribili, libretti d'opera. Quanti ne scrisse? Forse non lo sapeva neppure lui; ma alcuni restano nella storia del nostro teatro lirico: '”Andrea Chenier”, la “Bohème”, la “Tosca” e la “Butterfly” che compose insieme a Giuseppe Giacosa, e l' “Isabeau”… Col passare degli anni egli era andato sempre più amando e cercando un tipo di melodramma a grandi scenografie pittoresche, con personaggi vagamente e romanticamente dissolventisi in un simbolismo vaporoso e borghese. E anche era diventato avido di coltura, o almeno di ostentarla; da ciò un bizzarro verbalismo, una ricerca di parole di suono stravagante, scelte più a orecchio che con un preciso sentimento dello stile. Ma anche qui, ancora e sempre, l'antica abbondanza di invenzione, la copia festosa dei particolari, una rara prontezza di espedienti e un fuoco giovanile. Bellissimo era quando un'idea gli sbocciava entro il cervello ostinato. La comunicava intenerendosi, e i suoi occhi celesti e sanguigni si empivano di lagrime. Egli si esaltava, si estasiava, palpitava, fremeva, trovava eloquenze accorate o esultanti, narrava il fatto poi spiegava il significato recondito del fatto. Lasciava talora l'ascoltatore intontito, ma pieno d'ammirazione per la vivacità appassionata, per la fecondità intellettuale di quell'uomo che pure, in tutta la sua vita, non aveva fatto che inventare e inventare; e ancora adesso, vecchio già, trovava ancora immaginazioni che lo inebbriavano. La guerra lo accese di entusiasmo. Il vecchio caporale di artiglieria Luigi Illica scriveva, dalla fronte, agli amici lettere infiammate. E intanto immaginava un nuovo, un grande melodramma, tolto dall' “Eneide”, che doveva essere una celebrazione delle origini italiche. Questo fu l'ultimo sogno di Luigi Illica, l'ultima fantasia di questo scrittore e turbinoso, dagli occhi azzurri e dal sopracciglio irritato, al quale, anche coloro che furono cento volte in dissenso con lui, pensavano con affettuosa simpatia, e col desiderio di udire la sua parola variopinta e le sue storie, numerose e sorprendenti come quelle delle “Mille e una Notte”.
RENATO SIMONI (Verona, 5 settembre 1875 - Milano, 5 luglio 1952)