Teatro Stabile di Trieste presenta:
Il capitano di Kopenick (1973)
Di Carl Zuckmaier
- Interpreti: Renato Rascel, Orazio Bobbio, Carlo Montini, Saverio Mariones, Lidia Braico, Elio Crovetto, Cesare Polacco
- Versione italiana: Carpinteri e Faraguna
- Musiche: Renato Rascel
- Scene e Costumi: Luciano Damiani
- Regia: Sandro Bolchi
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Renato Rascel - Foto di scena
IL CAPITANO DI LATTTA
La parabola di questo "Capitano di Kòpenick" è semplice. A chi non ha le carte in regola per vivere resta solo la fantasia per sconfiggere la grande balena nera che è lo Stato, con le fogne burocratiche, i miasmi che filtrano tra le spalline dorate quando, chi le indossa non ne sente più. Il decoro. Il capitano, Achab o Voigt, non riuscirà a guastare le grandi carni del cetaceo: anzi, ne verrà risucchiato come un granchio che speri solo di essere vomitato alla vita, dopo aver scalfito in qualche modo la crosta. Lo spettacolo parte sotto i rintocchi di un sinistro valzer, un mondo che gira e trasferisce il nostro eroe da un punto all'altro della sua avventura: un tunnel a spirale che si morde continuamente la coda prima di riaffrontare il girotondo.
Con Luciano Damiani, scenografo e costumista il cui contributo va molto al di là dell'illustrazione elegante e storicamente acuta, si è pensato al “girevole” come a una soluzione tecnica che scandisca la fuga di Voigt, la corsa nel velodromo costellato di uffici, stazioni, caserme; e ne faccia dolorosamente gustare i battiti. L'impianto vuole eludere le secche di un magico realismo bontempelliano per sfogliare (principali che vanno e vengono, proiezioni con aquile e castelli, materiali tormentati, martirizzati sino a rinascere come invenzioni assolute; e colori sui quali si abbattono stemmi, putti che reggono cannoni, un “soncta santorum” dell'iconografia tedesca già avvertita dei primi echi hitleriani), un album abbastanza incattivito, anche insolente dove le foto-cartoline vengono forate per leggerne meglio il cuore borghese o la grinta del potere. Siamo in cabaret dove gli incubi non temono il sarcasmo, anzi, Io invocano per liberarsi di ogni detrito espressionista che sia percorso da troppi brividi. Via il belletto, se rischia di annerire la favola, d'incupirla con le tetre sagome di Grosz, di popolarla di troppi crani lucidi, di bocche sventrate, di occhi al bistro. Si apriranno le finestre perché soffi un vento che afflosci i manichini di Bob Fosse ("Cabaret") e ne rianimi altri, magari del grande avanspettacolo, capaci di evocare subito una comicità sgangherata ma prepotente e anche perfida (c'è odore di caserma, di latrina, di “gavettino”: e l’uniforme ne rimane intrisa, anche se poi saprà sventolare su qualche albero della cuccagna, ridendo magari di se stessa). L'apologo, quindi, non teme di addentrarsi nel trivio così come riesce a farsi aggredire dal “gran Patetico” senza venirne soffocato. Sì, perché Zuckmayer ha sempre in serbo qualche goccia di acido fenico per illividire quel po' di zucchero sparso sui personaggi che sono tanti (sessanta, settanta se ne perde il conto).
Sandro Bolchi
IL MIO VOIGT
Nel lontano 1939 conobbi un ornino che si agitava sui palcoscenici dell'avanspettacolo, indossando un vestito troppo grande per lui e un cappello troppo piccolo perché potesse ripararlo dalle secchiate d'acqua sporca che i potenti della ribalta gli rovesciavano sulla testa per affogarlo. Parlava uno strano linguaggio, fatto di parole in libertà, che indignava i più, infognati com'erano in un lessico conformistico e che negavano all'ornino il diritto di volare con le ali della fantasia. Ma l'ornino non si perse d'animo e continuò a parlare. a sognare, a digiunare. E così nella vita, come sul palcoscenico, combatteva i soprusi, le angherie di uomini di potere senza scrupoli e senza coscienza. Ma questi uomini non volevano saperne di questo malinconico menestrello che chiedeva un passaporto per un mondo surrealista e poetico. Allora l'ornino si arrabbiò e mise in atto la sua grande beffa. Si vestì da corazziere e tutti si alzarono in piedi ad applaudire. Aveva vinto. Era entrato in quel raggio di sole che lo ripagava dal freddo sofferto. Ora, però, cercava l'incontro magico, l'incontro che gli insegnasse a soffrire anche per gli altri... Sono passati molti anni e gli incontri sono stati addirittura favolosi. Gogol. Ionesco, Eduardo, Courteline. i grandi spettacoli di Garinei e Giovannini, l'abbraccio del grande Chaplin. l'incontro e l'amicizia con l'ineguagliabile Picasso. Che stupende sensazioni! Che lezioni di vita! Ora c'è un nuovo incontro, allettante, eccitante. E' avvenuto qualche mese fa a Trieste. Ho incontrato Zuckmayer, tramite il mio grande amico Sandro Bolchi. Sandro mi ha preso per mano mi ha condotto in un camerino del Teatro Rossetti e mi ha presentato, appeso a una stampella, un vestito avvilito dall'usura del tempo e composto di una palandrana. un pantalone, una bombetta ed un paio di grosse scarpe. Poi mi ha detto: Renatino calati in questo vestito. Mi ha posato una mano sopra la spalla e guardandomi negli occhi, come un ipnotizzatore ha sentenziato: da questo momento sarai Guglielmo Voigt. Ah scusate. dimenticavo di dirvi che l'ornino della storia di cui sopra, ero io.
Renato Rascel