Da SIPARIO Num. 236 Dicembre 1965:
- IL MESTIERE DELL'ATTORE: Una responsabilità artistica e civile
Autore: Tino Buazzelli
IL MESTIERE DELL'ATTORE
Tino Buazzelli - Una responsabilità artistica e civile
lo sono uscito dalla Scuola d'Arte Drammatica di Silvio D'Amico: siamo in parecchi a ess'ere usciti da quella scuola, e tutti più o meno abbiamo condotto avanti un discorso. Per quanto la vita o le occasioni sbagliate o le circostanze abbiano indotto alcuni a sostener ruoli o a partecipare a imprese non felici - e non c'è attore che in questi anni non abbia subito défaillances grande o piccolo che sia, di successo o no, di prestigio o meno - uno spettatore attento, di fronte a un attore uscito dalla scuola di Silvio D'Amico, lo riconosce immediatamente, per un certo impegno, per un certo taglio, non sempre definibili, non sempre accertabili, a prima vista. Per fortuna, di mattatori, di grandi attori, nel senso deteriore del termine, non ce ne sono stati tra noi, almeno sostanzialmente, nel senso di aver provato nostalgia per un teatro in cui un attore brucia le ali a tutti coloro che lavorano attorno a lui; o che si sia stati negligenti nei confronti di un testo ridotto o tagliato o manomesso su sua misura o per suo privilegio; o anche che non si sia capita I'efficacia e l'importanza della funzione della regia per il rinnovamento di certi spettacoli in maniera unitaria e continuativa e con un filo-guida della rappresentazione il più possibile critico. lo personalmente, per quanto possa avere tentazioni - e magari con qualche merito - non saprei mai rappresentare un testo lasciando in sottombra deliberatamente il contributo di altri interpreti a vantaggio esclusivo del mio ruolo; come non saprei costringere un testo a piegarsi alle mie possibilità, non dico tagliando o riducendo le sue parti, ma nemmeno tradendo deliberatamente il suo spirito e la sua discendenza. Su oltre quindici anni di attività di attore ben tredici li ho passati in teatri stabili con registi: sarebbe quindi come tradire la mia maturità di oggi, oltre che il lavoro di tutti questi anni di ricerca, non ammettere quanto abbia giovato su di me la presenza di un regista, eccellente o meno non importa, tutte le volte che tra lui e me si è creata una possibilità di dialogo, di partecipazione e di collaborazione. È anche vero che arriva il momento in cui - o perché l'attore ha accumulato esperienze molteplici, di vita e di tecnica teatrale e di sperimentarione scenica, e se le sente addosso come responsabilità per far ancora di più e di meglio; o perché il regista nel frattempo si e appannato, per naturale stanchezza o per eccessivo consumo di energie, sia come persona sia come creatore, e anche perche è in un periodo di riflessività, di passaggio da un'esperienra teatrale a un altra - insomma viene il momento in cui quella possibilità di dialogo, di partecipazione e di collaborazione viene meno. È naturale allora che ciascuno cominci a riflettere sulla propria funzione all'interno di uno spettacolo, in che misura sia necessario operare in esso, a parità di merito e di intenti, e se non e il caso di mettere in movimento tutte le proprie energie anche umane allo scopo di realizzare concretamente quel che gli sembra più propriamente suo e quel che gli pare debba essere il timbro di uno spettacolo, tenendo conto delle esperienze da cui è uscito. Ognuno del resto reagisce secondo quel che pensa e vuole fare: io sono particolarmente sensibilè alla mia attività di attore, ma anche a quella di persona civile, di uomo insomma; non saprei accontentarmi di risultati artistici per se stessi, e potrei avere dalla mia la testimonianza di tantissimi critici o dello stesso pubblico, a me più affezionato per Ia mia- schiettezza e semplicità di attore. Cosi debbo ogni volta rimettere in discussione la mia natura di attore nei confronti di me stesso come uomo che vlve accanto ad altr uomini, .come persona civile che si assume inevitabilmente delle responsabilità in nome di quel che dice dal palcoscenico. Sarà perché uscire da personaggi come il soldato Sveik o Galileo, è come venir rinnovati totalmente, sia conre impostazione di lavoro propriamente interpretativo, sia come acquisizione di umanità e di responsabilità: comunque sia, io sono dell'opinione che non ci si può accontentare di spettacoli anche ottimi e di interiretazioni anche eccellenti, ma che si deve affrontare il pubblico, la gente, totalmente, rinnovando continuamente i propri strumenti di lavoro e offrendo materiali sempè più moderni di poesia. Non credo a esperienze in cui l'attore nasconde la parola nel gesto o si fisicizza nei movimenti, perché ho fiducia nella parola, per quel che essa può dire come veicolo di sentimenti e di idee, a un pubblico che viene a teatro non per sentirsi estraniato ancora una volta dalla vita, ma per confermarsi in alcuni suoi principi che nella vita vede calpestati o non presi in considerazione. Naturalmente le opere andrebbero scritte in maniera nuova, come sono abbastanza nuove la nostra qualità di attori e la ricerca della miglior regia. Voglio dire che queste opere non dovrebbero soffrire di Iinguaggi complicati e di significati mimetizzati, ma attraversare la verità come lame di coltello, e incidere profondamente nell'animo degli spettatori. lo penso che l'attore, con la sua presenzà fisica, con il suo prestigio, con la sua umiltà ben dichiarata, può arrivare direttamente al pubblico, aldilà dell'organizzazione spettacolare di un'opera, con allestimento grandioso di scene e con arricchimento senza fine di costumi, in estrema pulizia e ordinamento di scene e di luci; non mancano esempi in questo senso, nella recente drammaturgia, soprattutto tedesca e inglese. La verità è che i nostri scrittori di commedie stanno sempre alcuni passi dopo il nostro tempo: non si accorgono che si corre in fretta e che mutano le abitudini di vita, i modi di parlare e i tipi di comportamento. È anche vero che troppi attori sono rimasti attaccati a certe esperienze di classici, nell'ambito moderno, e non ne vogliono o possono uscire a motivo della toro pretesa educazione letteraria o del loro inguaribile senso sacro del passato. Che cos'è questo recupero dell'attore, se non una sua possibile rinnovata Iibertà di incidere sul pubblico, con il quale lui solo viene a contatto e da cui dipende Ia sorte dell'opera in definitiva; e che cos'è poi tutto questo se non una sua richiesta, in mezzo alla struttura economica del teatro italiano, di poter agire concretamente nei confronti del pubblico?
TINO BUAZZELLI