Gruppo Teatro Azione diretto da Giorgio Strehler presenta:
Cantata di un mostro lusitano (1969)
Lavoro di teatro con musiche di Peter Weiss
- Interpreti: Milena Vukotic, Milva, Giorgio Del Bene, Giancarlo Dettori, Giustino Durano, Saviana Scalfi, Franco Graziosi, Marisa Minelli, Marisa Fabbri, Massimo Sarchielli, Umberto Anastasio, Claudio Capodieci, Fabio Marconcini
- Musiche: Fiorenzo Carpi - Bruno Nicolai
- Scene e Costumi: Ezio Frigerio
- Traduzione, Riduzione e Regia: Giorgio Strehler
Programma di sala (pagine 44)
- Un cadavere nella stiva (Giorgio Strehler)
- Incontro con Peter Weiss
- Siamo noi la speranza (A. Neto)
- La via d'uscita è una sola (Guido Piovene)
- Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori (Jean Paul Sartre)
- La nuova via dell'Africa (Basil Davinson)
- Fotografie Pascuttini
Un cadavere nella stiva; il razzismo nascosto
Ai margini di uno spettacolo che ormai sta arrivando alla sua naturale fine (o principio), al levarsi vero o immaginario di un sipario, ben poco si ha da dire. Cosa si è fatto veramente. Cosa veramente c'è ancora da fare? Cosa si verificherà? Cosa non si verificherà? Nell'uomo di teatro regna - a questo punto - una specie di ebbra incertezza, piena di angoscia e di amore. Non per retorica, molto spesso noi teatranti chiamiamo la nascita di uno spettacolo, «parto». Nel caso di questo spettacolo mi pare di poter dire però che, prima ancora di andare in scena, certamente qualcosa di più del «teatrale» s'è già realizzato. E' stato fatto un «lavoro di teatro» straordinario fra tutti noi che componiamo questo gruppo. In pochi giorni, una collettività, in un momento storico così contraddetto, così incerto e anche oscuro come il nostro, attraverso difficoltà artistiche - e non solo artistiche - si è «costruita» tutta da sé: sentimenti, ordine, regolamentazioni, lavoro, riti, scena, rapporti umani, tutto con una forza, un calore, una solidarietà, che nella mia lunga vita di teatro non ricordo di avere mai trovato. C'è, insomma, qualunque cosa accada, dietro alla realizzazione di un testo di teatro, una «realizzazione di vita», che si è conclusa, con un successo dolce e pacato, assoluto, irreversibile. Forse, parlando in termini puramente di palcoscenico, la mia più buona e profonda «regìa» è già stata fatta, prima ancora che lo spettacolo sia andato in scena. Sono orgoglioso di questo e commosso. E grato ai compagni. Abbiamo fatto tutti la nostra parte, «bene». Siamo stati veramente «bravi tutti». E onesti, soprattutto onesti tra noi . Intanto, le prove, così poche (35, per la cronaca), continuano. Mi domando ancora cos'è questo testo di Peter Weiss! E cosa abbia creduto di trovarci dentro io, che cosa abbiamo realizzato tutti noi. E' possibile che ancora adesso io mi faccia questa domanda? Eppure penso che sia giusto. Perché Weiss ci ha dato nelle mani un testo totalmente libero, totalmente «aperto», totalmente pieno di sollecitazioni, ma «senza rete», senza sostegno. Nemmeno l'aiuto della poesia. Weiss non l'ha voluta questa « poesia» scritta, o almeno non l'ha voluta in gran parte. Weiss ci ha chiesto - se era il caso - di trovarla da noi stessi, la «poesia», nelle cose, nel lavoro d'ogni giorno, sulla trama delle sue parole. Ci ha dato in mano una cosa «nuda». Non informe. Anzi, precisamente segnata. Ma nuda. C'è molto, però, in questa traccia, che è più di una traccia e meno di un «dramma», meno di un «oratorio laico». Ci sono parole, cori, canzoni, scene tragiche, scene grottesche, c'è il lampeggiare del circo, il raggio a carbone del music-hall, il dato statistico, la furia, l'indignazione, l'ingenuità - persino - della indignazione, che non fa mai i conti con le date precise e anagrafiche, ma con il sentimento della repulsione che il delitto suscita in noi, c'è la lezione epica, quella della «scena di strada», l'esemplificazione didattica la traccia dell'orrore, della crudeltà, il segno del gestuale, del mimico, e ancora del «gestus» brechtiano che è tutta un'altra cosa. Ma queste «cose di teatro» sono lì, buttate a piene mani, per la nostra «responsabile libertà», la nostra responsabile coscienza morale, la nostra indignazione e la nostra rivolta. Per la nostra capacità di scoprirle e di dar loro un corpo, per scoprire la poesia di teatro dove c'è la nudità schematica, perché talvolta lo schema occorre nella confusione. In certi momenti bisogna non averne paura. Non a caso, ora capisco Weiss stesso, quando una sera a Berlino, un anno fa, circa, nella notte, mi parlava del «Popanz» con una terminologia che allora mi parve enigmatica. Mi ricordava «Il servo di due padroni» di Goldoni, il nostro «Arlecchino», aggiungendo che anche qui occorrevano «humor», fantasia, invenzioni, libertà, «come una Commedia dell'Arte», diceva lui, «impegnata», aggiungevo io, senza però afferrare bene il nesso fra le due cose. E poi, insisteva .sulla «questione ritmica». Il cambio dei ritmi. Il gioco dei ritmi. Bene: credo che almeno queste due cose, qui, ci siano. Oggi, le parole di Weiss mi sono più chiare. Non erano enigmatiche. Tutt'altro. Erano una indicazione precisa. Uno stimolo che io spero di aver raccolto. Ma non so entro quali limiti. Lo smarrimento della libertà. L'angoscia della libertà. Del poter far tutto. O troppo o troppo poco. Questo resta e resterà ancora un punto interrogativo che il risultato di uno spettacolo non risolverà. Occorrerà tempo e una lunga meditazione autocritica per capire. Dopo. Resta il fatto che noi tutti (e non è un noi maiestatico, il mio, questa volta meno che mai), che noi tutti abbiamo cercato di dare vita ad uno spettacolo «libero», composito, vario, perfino scorretto, pieno di citazioni, pieno di invenzioni magari arbitrarie. Abbiamo cercato di realizzare non «lo spettacolo» che risolve tutto, il punto fermo per la drammaturgia di domani o di oggi, ma semplicemente «uno» spettacolo, o forse - meglio - una possibilità di spettacolo, uno studio al vivo di uno spettacolo. Senza cadere possibilmente nel « pastiche », dico possibilmente, perché il « collage » ha sempre dietro di sé l'agguato del «pastiche ». E' proprio questa la caratteristica del nostro lavoro: di non essere completo, di non voler quasi esserlo, di volersi proporre continuamente come materiale di lavoro, per il domani. E' giusto, tutto ciò, per uno «spettacolo» che il pubblico deve vedere? Forse no. Ma non c'erano altre soluzioni. Potevamo fare uno spettacolo equilibrato e sicuro. Ma dovevamo fare i «nostri esperimenti». Non per noi soltanto, ma anche davanti agli altri. E' il destino del teatro. Come potevamo sfuggirgli? A proposito di esperimenti. Il nostro è, sì, un esperimento. Ma fatto da «professionisti», con le armi intatte della più rigorosa professione. Sono curioso di vedere qui come dei «professionisti» all'italiana, senza imitare nessuno, possono compiere evoluzioni drammatiche su una gamma così larga. Ma proprio c'è veramente qualcuno che crede ancora che i «professionisti» del teatro, gli attori del «birignao», della dizione pulita, siano dei «dinosauri» in via di estinzione? E che tutto ciò che è «mestiere », arte di èssere attori, impedisca estro furia fantasia sregolatezza, anche improvvisazione? Altrove, anzi, «attore all'italiana» è proprio tutto ciò. Che paradosso! Nel nostro spettacolo convivono varie tecniche di teatro, non tutte risolte, ma proposte seriamente. E convivono bene. Mi pare. Ciò forse vuoI dire che le tecniche in atto oggi non sono oppositive ma complementari, in fase dialettica. Che si potenziano al contatto. E ci volevano far credere che il teatro si faceva «o cosi» «o colà». E invece il teatro è un tutto: cioè «casi» e «colà», insieme. Ci volevano far credere che una specie di teatro escludesse fatalmente f altra. E invece no. A teatro niente si esclude, purché diventi teatro, sia teatro. Non mistificazione. O almeno mistificazione istrionica. Non morale. Questo è il punto. Ideologia. Saremo capaci di far capire al pubblico che noi recitiamo «coinvolti» in una specie di processo, che si compie sul palcoscenico, aIla razza bianca cui apparteniamo? Che «anche noi siamo Lusitani», cioè «bianchi»? E' questo un punto difficile. Noi, non ci sentiamo «direttamente colpevoli» dei diritti colonialistici da parte dei protagonisti del lavoro di teatro di Weiss. Ma indirettamente, si. E ce ne vergogniamo, quasi. Ne proviamo un senso quasi di malessere. Sono profonde e nascoste le radici del razzismo. Anche quando siamo tutti d'accordo che i bianchi hanno commesso orrori senza assoluzione, verso la metà di un mondo civile (diverso, ma civile, o più civile del nostro), anche quando .siamo d'accordo che il «colonialismo brutale» non ha più senso. Anzi. Forse proprio allora siamo più razzisti che mai. Senza saperlo. Proprio guardando i rotocalchi e compiangendo le povere creature uccise, i bambini del Biafra dal ventre enorme e voltando poi la pagina. O i massacri del Congo. E poi aprendo il televisore dove penosamente sgambettano i bambini del Tic-Tac. O altro. E' proprio il razzismo nascosto, segreto, annidato nel fondo del bianco, come un «cadavere nella stiva»,. che ci fa più paura. Riusciremo ad estirparlo da noi stessi? E quando? Se il mostro lusitano, che rappresenta la potenza dei «bianchi» lusitani contro il «negro» viene distrutto dai negri, basta? Non dovremmo invece distruggerlo noi stessi, con le nostre stesse mani, questo mostro che è anche più del solo colonialismo, perché è anche un sistema, un modo di vivere, un modo di pensare? Abbiamo tentato in vari modi di farlo da «attori bianchi» e non da negri invasati che si vendicavano, come non possiamo essere. Abbiamo cercato di farlo sulla scena. Non sappiamo se abbiamo trovato la soluzione. Ma certo la volontà di farlo da noi era, ed è, chiara. Da noi stessi. Uccidere anche parte di noi, dico. Pochi giorni fa, mentre provavamo, nel silenzio, relegato in settima pagina dei quotidiani (quei pochi che hanno riportato la notizia), è morto Mondlane. Una bomba l'ha sbranato, senza scalpore. Era un uomo grande e buono. Un «negro» che lottava e vedeva chiaro, per i suoi «negri». Ho pensato che, in segreto, avremmo dedicato a lui un poco del nostro lavoro. Perché non si parla più di Lumumba? Perché non si parla più di Ciombè, un assassino fra i più bassi, un ignobile delinquente, un ladro sanguinoso? Perché non «fa più notizia». Anche il delitto è dimenticato quando «non fa più notizia». Mi accorgo che l'Angola sta ritornando di moda. Noi l'abbiamo precorsa, questa moda, con il cuore. Perché per noi la tragedia del cosiddetto Terzo Mondo non è una moda. E' un male, dentro. Ritornando allo spettacolo di Weiss. E' chiaro sempre di più che si tratta di uno spettacolo fatto da attori bianchi per i bianchi. Attori bianchi che appena appena accennano, non «simulano», i «negri». Ma pongono un problema di rapporti. Ricordano uno stato di fatto. Mettono in movimento ragioni storiche, economiche e sentimenti. Ma sempre da bianchi a bianchi. Quanto siamo parziali? Quanto lo saranno gli attori «negri» che reciteranno in altro modo, certo, lo stesso lavoro di teatro, tra non molto, anche qui? Quanta parzialità occorrerà ancora prima di poter finalmente non essere parziali? Ci siamo continuamente chiesti: per chi è fatto questo nostro spettacolo? Ci siamo risposti: per chiunque lo vuole ascoltare. Anche per quelli che «non» lo vogliono ascoltare. O non lo «sapranno» ascoltare. Ci siamo detti: perché non opporre al silenzio, all'umana viltà del disimpegno, all'indifferenza, alla stanchezza del dramma piccolo e quotidiano, a tanta fragilità della «gente», lo stimolo a prendere possesso, quasi con violenza, magari, anche per poche ore, di una « verità» tragica che è nostra. Di noi tutti. Noi e loro? Può servire tutto ciò? Io credo ancora che la poesia, quando c'è, sia «verità» . Sia un fatto rivoluzionario in sé. Sempre. E che la verità va sempre detta, appena si può, con tutti i mezzi, teatro compreso, strutture vecchie, antiche, decrepite, non importa. La verità va sempre gridata, appena possibile. Dovunque. Un problema: gridarla bene. Quanto a gridarla poi alla «gente giusta », io non so bene chi è oggi sul serio soltanto la gente «giusta». So che c'è gente ingiusta e non mi interessa. Che in certi momenti c'è gente che vede e sente più giusto, che ha problemi più giusti e più immediati e più coscienti e gente che vede e sente meno giusto, con problemi meno coscienti ma non per questo meno reali ed immediati. Il teatro non dovrebbe escludere nessuno. Lo so che invece oggi esclude, automaticamente. Ma non per questo io sento il dovere del silenzio. Non per questo penso che i sipari debbano rimaner chiusi. Del resto io so soltanto far questo: parlare da un palcoscenico. E vorrei parlare agli esclusi. Ma anche ai non esclusi. E' giusto? Ne vale la pena? Non so. Credo però che sia onesto e non «discriminante» farlo, comunque. Guardo la nostra scena. E' una scena? Un teatro vuoto. La lezione di Pirandello ritorna! Ma non da oggi. Oggi ci accorgiamo soltanto meglio di cosa c'era «dietro» alla semplice rottura di una struttura scenica. Vedo la nostra pedana. La possiamo montare dovunque. E la monteremo dovunque. Anche in una piazza o in una sala qualunque. Il resto ci serve poco. Pure, ogni giunto di metallo è frutto di studio ed amore. Pure, le proporzioni sono calcolate, come meglio potevamo. Pure, lo spettacolo è nudo, povero ma non miserevole. Ricordo Brecht: «Perché gli spettacoli per i poveri, o che parlano ai poveri, debbono essere ... miserabili»? L'orrore della finta povertà. La povertà simulata. Per fare «rivoluzione». Una tragedia della nostra epoca fare la finta rivoluzione. Vestirsi, parlare, leggere libri, persino agire, per «simulare» di essere con la rivoluzione. Ma prima o poi,sempre, la verità, nuda misera verità del gioco, viene fuori. Quanti esempi abbiamo avuto in questi ultimi tempi! E come è difficile essere sinceri, nel proprio bene, nel proprio male! Il nostro spettacolo è sincero. Forse non del tutto. Ma certo entro un (largo) limite. E poi, perché proprio noi dobbiamo essere esemplari? Non vogliamo essere esemplari, l'ho già detto. Vogliamo solo essere un inizio di esemplarità. Se ne saremo capaci e degni. Ecco tutto. Riusciremo a far capire che è voluta la nostra «imprecisione »? Che il mio, per quanto mi riguarda, è stato ed è un atto di amore e di coraggio, coraggio del non essere « perfetti », del non cercare di essere perfetti? Non rileggo queste note che mi sono strappate dalle mani violente di un amico che, uno fra i tanti, s'è imbarcato su questa tartana di comici. Ma bisognava dire qualcosa. Almeno pare che faccia parte del rituale del teatro. Anche se sono stanco del rituale del teatro. Pure, proprio in questa tenace continuità del teatro sta la sua forza. Nel continuarlo, anche quando non se ne può più, quando gli altri non vogliono, quando tutto ti sembra perduto. Proprio qui sta l'eroicità del teatro, il suo valore morale. Il teatro è sempre un atto di fiducia nell'uomo. Come si vede, non cambia, con gli anni, il mio credo di trent'anni fa.
GIORGIO STREHLER