Il Piccolo Teatro della Città di Milano presenta:
I burosauri (1962)
Interpreti principali: Ernesto Calindri, Iole Fierro, Franco Sportelli, Carlo Ninchi, Gigi Pistilli, Lamberto Puggelli
- Musiche: Raoul Ceroni
- Scene: Carlo Tommasi
- Regia: Ruggero Jacobbi
Programma di sala (pagine 32)
- La stagione 1962/1963
- Un autore italiano
- Umani, inumani, fantocci (Ruggero Jacobbi)
- Silvano Ambrogi
- Da "Le svedesi"
- I quaderni del Piccolo Teatro
Umani, inumani, fantocci
Bisognerebbe cominciare come D'Annunzio, e dire che il 1962 “moriva assai dolcemente” per le piazze e i viali di Roma, quando undici “teatrologhi” di età, origine e gusto scandalosamente diversi. si riunirono nella capitale, allo scopo di scegliere fra qualche centinaio di copioni firmati o anonimi, inviati al concorso dell'Istituto del Dramma Italiano per una “opera comica”. (Uno, pedante, squittì: “Cimarosa? Donizetti? Non so di musica”). C'era, oh, di tutto: dai tardi “vaudevilles” elaborati da notai di provincia che ancora sognano gli adulterii, i vagoni-letto, gli alberghi internazionali rimastigli sul gozzo dal tempo in cui leggevano Dekobra e Guido da Verona; - alle cupe, iettatorie “satire sociali” di certi impegnatissimi brechtini centro-meridionali, dimentichi della gran verità proclamata dal loro stesso modello, per il quale - santo uomo - il teatro voleva essere anzitutto divertente. Debbo a Sandro De Fco la segnalazione - nel mare magno delle commedie scremale all'ultima mandata, quelle che ancora ci restavano da leggere - d'un copioncino smilzo, intitolato “l Burosauri” e firmato da un autore a tutti ignoto. (Poi si scopri che aveva scritto un romanzetto, che Feltrinelli glie l'aveva pubblicato, e che del romanzetto almeno il titolo era andato a finire in un film. Poverissimi noi, siamo ignoranti; non si può legger tutto, e la carta stampata ci affoga ogni giorno di più). La commedia piacque a me, poi a Fabbri, poi a qualche altro; e finalmente ottenne l'assenso di Zavattini, che presiedeva il piccolo conclave. Tira e molla, dopo qualche impuntatura da varie parti (le buone commedie non mancavano), questi “signori dalle mezze maniche” del nuovissimo Courteline nazionale passarono, e vinsero. Che ci aveva colpito, nel lavoro del giovane Ambrogi? Prima di tutto la poca pretesa; che è segno di saggezza, equilibrio, testa sul collo. Qualità tutt'altro che disprezzabili in un mondo che perde la testa a ogni piè sospinto; in questa letteratura, e drammaturgia. di falsi pazzi; dove si dà fondo all'universo per un semplice strider di letto, o balenio di bicchiere, o gelo d'una stanza; tutte cosette che diventano, sommariamente, il cosmo, e invitano alle più comode metafisiche. O dove si fa ogni mattina la rivoluzione mondiale, tempesta in un catino. L'Ambrogi era prudente, per semplicità o per furbizia. O per il tranquillissimo fatto d’essere uno scrittore. Uno scrittore, si sa, è uno che prende un tema alla volta, ed ogni volta zappa e innaffia quella sola, angusta aiuola, finchè gli butti. A meno che non voglia scatenare (operazione sconsigliabile ai più, e a teatro - direi - a tutti) qualche Ulisse, qualche Ricerca del Tempo Perduto. Figuriamoci. Fissata una storia, un ambiente, un mazzetta di figure tutte tuffate in quell’ambiente e condizionate da esso, l’Ambrogi con molto garbo e un bel po' di non ostentata crudeltà svolgeva il suo tema. Diligentemente, e più che diligentemente. Non gli mancava il senso dell'economia scenica, quel che chiamano il “taglio”. Né la parlata dei personaggi era una lingua da teatro, o da traduzione di teatro, come ce ne sono fin troppe; era un mormorare o sbraitare di gente viva, anche se incartapecorita dalla funzione. Ch'è il modo d'esser vivi dei funzionarii. E, finalmente, l'Ambrogi non disprezzava certe regolette antichissime riguardanti la progressione dell'interesse scenico, la sua curva, i suoi calcolati balzi. Ci si domandò subito se la commedia avesse origine da un 'esperienza personale. Certo un po' di polvere di ministero l'autore doveva averla respirata, e doveva essere riuscito a scrollarsela di dosso prima che gli desse l'infarto come al suo povero cavalier Massara. Ma poi, quando conobbi l’Ambrogi di persona, mi dimenticai di chiedergli notizie di questa eventuale matrice autobiografica della commedia. Segno che non ne avevo curiosità; segno, soprattutto, che il mondo in essa rappresentato era divenuto autonomo, s'era fatto in qualche modo fantastico; il cordone ombelicale coi documenti era stato nettamente reciso. Veniva da chiedersi, anche, se non vi fosse sotto sotto qualche diavoleria ideologica o filosofica; si sa che ciò suole accadere nelle opere dall'apparenza troppo liscia. Mentre in quelle che sùbito si palesano per “profonde” (ma aveva ragione Brancati: -profondo- è l'assurdo Andreiev, -superficiale- è il perfetto Goldoni, l'assoluto Molière) gratta gratta trovi soltanto il caos, l'assenza d'idee, un viscerale o tumultuario nulla. Qui l’Ambrogi taceva. O lasciava parlare, in epigrafe, la sociologia anarchico-buddista del terribile Elémire Zolla. Sinistro messia, dice costui testualmente: “Lentezza, dilazione, incapacità di avvertire i problemi che si trattano, riduzione di ogni cosa ad un rituale di maniaci, ad un gergo grottesco, ecco i tratti del burocrate, che tratta con futilità le cose serie e con serietà le futili, vive tra divinità ripugnanti al modo degli gnomi nordici nelle loro caverne: c'è per lui il dio scrivania, con la disposizione sacra di oggetti sovr'esso, il dio foglio di carta consacrata e in genere le ordinate cristallizzazioni del disordine”. Tutte queste cose si ritrovano puntualmente nella commedia di Silvano Ambrogi, ma non come dimostrazione a posteriori d'una tesi; anzi come un “prima” d'esperienza, cui poi dev'essere servita di conferma l'apocalittica diagnosi zolliana. L'Ambrogi, credo, non vuol dimostrare nulla; ma ride, e un po' soffre, di quel suo mondo. quasi abisso che ci potrebbe, oggi o domani, ingoiare tutti. E così vuole che noi ne ridiamo molto, e soffriamo un poco. Il pericolo d'essere o diventare burosauro è nascosto nell'uomo d'oggi, di là dal mero fatto della burocrazia in senso stretto. Certo, però, che questa è impagabile. e come materia comica, e per la sua tipicità; è forse l'unico microcosmo moderno ove si possano risuscitare immemorabili tropi della Commedia dell'Arte, come il latino dei dottori Graziano e Balanzone; che infatti, qui, il patetico caposezione Altamura reincarna in un suo –liberty-. Patetico. Ma patetici sono anche il “caduto sul campo”, cavalier Massara; e lo sgobbone Fisichella, ossessionato da una tabella d'avanzamenti come da una promessa di pace ultraterrena. Né il ribelle Terenzi riesce ad essere simpatico. Il crepuscolarismo è il limite di tali satire? No, forse è più semplice dire che all’Ambrogi non repugna d'essere umano. Neanche a noi. E così l'abbiamo messo in scena; come uno scherzo che, ogni tanto, duole. Non troppo; quel che basta ad aprire una porta sull'incredibile incoscienza di chi vive, e non si vede. Perchè i sauri della burocrazia agiscono di là dai loro sentimenti: li hanno controvoglia o senza saperlo. Il loro mondo quotidiano è quello dei feticci, il loro pensiero è di frasi. E a nulla vale la realtà che li scuote, almeno una volta nella vita, e fa un suo strappo; lo si ricuce sùbito, e il paradiso artificiale dei titoli e delle formule, il gran sogno della Carriera, facilitano qualche definitiva narcosi. Vittoria della forma sulla vita, avrebbe detto Tilgher. Ma io penso che la commedia dell'Ambrogi sarebbe piaciuta a Pirandello; al semplicissimo Pirandello pre-Tilgher, tutto chino sul concreto dell'esistenza e già, d'istinto, umile e praticissimo uomo di palcoscenico.
RUGGERO JACOBBI