Compagnia del Teatro Eliseo presenta:
I masnadieri (1982)
Di Friedrich Schiller
- Interpreti principali: Gabriele Lavia, Umberto Orsini, Monica Guerritore, Gino Pernice, Giovanni De Lellis, Alberto Ricca, Luigi Carani, Lucio Rosato, Luciano Turi
- Traduzione: Luciano Codignola
- Musiche: Giorgio Carnini
- Scene: Giovanni Agostinucci
- Costumi: Andrea Viotti
- Regia: Gabriele Lavia
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Lavia - Orsini - Guerritore - Foto di scena
Programma di sala (pagine 60)
- Introduzione allo spettacolo (Luciano Codignola)
- Note di regia (Gabriele Lavia)
- Cronologia della vita di Friedrich Schiller
- "Carteggio" fra Schiller e Goethe
- Articoli e recensioni dello spettacolo
- il cast
- I collaboratori
- La stagione al Teatro Eliseo e al Piccolo Eliseo
- Fotografie di Tommaso Le Pera
Die Riiuber, cioè i fuorilegge, i banditi, i briganti, ma per noi, e probabilmente per sempre, I Masnadieri. Con questa tragedia Schiller entra violentemente nella storia della letteratura tedesca come poeta della ribellione e come suddito ribelle, retore della libertà politico-sociale e - già in embrione - nella kantiana libertà etica. Ma soprattutto egli entra nella storia della drammaturgia con un evento straordinario, che si tentò più volte di imitare e a cui certamente molto dobbiamo. Al di là del proposito di impiegare il palcoscenico come "istituto morale", ciò che affascina maggiormente in Schiller è la capacità di far scoppiare effetti scenici e fondare su questi la struttura della sua drammaturgia. Egli possiede un grandioso stile drammatico e quella particolarissima abilità scenica che consiste nel saper sfruttare ogni risorsa dell'emozione e della sorpresa. I Masnadieri si inseriscono idealmente nello Sturm und Drang, e in quella luce di furore visionario attaccano le istituzioni politiche, sociali e i pregiudizi morali. Schiller definisce i compagni di Karl Moor libertini, poi masnadieri: in quel poi è contenuta la novità della tragedia che condanna il libertinaggio esaltando una ribellione impossibile, assolutamente impossibile poiché la ribellione è azione e l'azione dell'uomo è male. Certamente, ai tempi dei Masnadieri, Schiller era animato da un profondo bisogno di ribellione verso la sua epoca; però questo non basta certo ad affermare che egli desiderasse veramente una rivoluzione. Ma al di là di ogni retorica, vera o presunta, che epoche diverse hanno. attribuito al testo, non possiamo non pensare che il nobile Karl Moor si sarebbe ribellato. comunque all’ordine sociale, anche se non fosse stato vittima di suo fratello. Karl sente repressa la sua vitalità da questo vecchio mondo gotico, simile ad un rudere sul punto di crollare. Egli è assetato di grandezza, vuole emulare gli eroi delle Vite Parallele di Plutarco ma riesce solo a trasformare l'amicizia goliardica con i suoi compagni in una fosca congiura disperata: poiché l'azione è inseparabile dal male, perché nel mondo di Schiller esistono “certi“ buoni e “certi” cattivi. Così quando Franz dice "al lavoro, al lavoro!" è certo che Schiller intende il male; ma neppure Franz porta a termine il suo freddo, logico proponimento: egli sente oscuramente che la sua azione è colpa imperdonabile da qualunque Dio. Il demonio penetra in entrambe le anime; corrode il "malvagio" Franz, ma anche il "buono" Karl. Karl è bello, quindi forte, quindi buono e uccide. Franz è brutto, quindi debole, quindi malvagio, e opprime Karl - che già era stato capo di bravate goliardiche, come il blocco del mercato della carne a Lipsia - sarà scelto come capo da una banda di incendiari e assassini, e sarà costretto ad agire da didattore: ma questo potrà farlo solo perché egli è didattore nell'essenza dell'anima, e perché i suoi compagni sono delinquenti nell'essenza dell'anima. L'amore della giustizia lo farà ingiusto, per punire i delitti commetterà e permetterà che si commettano delitti. Ma quando si accorgerà con vergogna che lo scoppio della polveriera ha ucciso soltanto degli innocenti, sentirà il primo fallimento della sua utopia rivoluzionaria, e alla fine riconoscerà che la violenza non genera giustizia e sarà terrorizzato all'idea che basterebbero pochi uomini come lui per sovvertire quell'ordine sociale che, per quanto ingiusto, è un'emanazione della provvidenza divina. Allora la sua nuova parola d'ordine diverrà misericordia; eppure si macchierà di un nuovo delitto, l'omicidio di Amalia: e questo è misericordia? Franz può dominare solo con il terrore; egli pensa, con una lucidità demoniaca e quasi infantile: - ciò che non mi piace non deve esistere -. La logica del ragionante lo costringe a farsi didattore, poiché il diritto sta col più prepotente e le istituzioni e le leggi sono gli argini della libertà. La natura, le leggi, le istituzioni sono ingiuste con Franz: brutto, secondogenito - non erediterà -, non fu mai amato da suo padre, al contrario di KarI, e non è amato da Amalia perché ha un grugno bestiale ed è storpio. La morale vuole che accetti tutto questo e che il mondo sia di Karl, ma egli vi si ribella e si ribella anche ad ogni istinto di umanità perché ognuno ha lo stesso diritto di essere grande o mediocre, e diritto si contrappone a diritto, forza a forza, impulso a impulso. Ma troppo avanti s'inoltrerà nel mare del delitto e non potrà più tornare indietro, egli morirà disperato, impiccandosi. E dopo Karl dirà: - un grande peccatore non può tornare indietro -. Nessuno dei due crede in un Dio che può perdonare, perché è stato inculcato loro che Dio è il vendicatore. I due personaggi avrebbero potuto essere gemelli, la loro struttura morale è identica. Possono solo riconoscersi perché uno è bello e l'altro è brutto. Ma non si potrà dire con certezza che Karl sia vittima di Franz, piuttosto si potrà affermare che Franz è la vittima di un mondo convenzionale che ama soltanto i Karl libertini o masnadieri che siano; e neppure questo è certo: ma il teatro non è fatto di chiarezze, soltanto di azioni. E dunque possiamo pensare che Karl e Franz - che non si incontreranno mai sulla scena - siano un solo grande personaggio che si ripete due volte, le stesse scene guardate con due ottiche diverse. Franz recita il suo dramma psicologico che lo porta al delitto. Karl recita il suo dramma ideologico che lo porta al delitto. Il rifiuto di Franz verso tutto ciò che è istituzione e non è intelligenza nasce dall'ansia infantile di sentirsi rifiutato dal padre come brutto e storpio. Si potrebbe dire che Franz abbia vissuto la condizione di orfano, quando bambino veniva scacciato dalle ginocchia del padre e chiamato arido, freddo, legnoso, storpio, e scacciato da un mondo di belli, buoni e geniali. Potremmo dire che Franz ha vissuto un lutto infantile e che dentro di lui il padre era già stato ucciso più volte. L'ammirazione che Franz prova per il fratello - quasi idolatria -, lo porterà a vaneggiare una somiglianza ideale e gemellare con lui, e quindi produrrà il desiderio di possesso della stessa donna, della quale, per emulazione, si innamorerà disperatamente. Ma questo amore non può essere corrisposto perché la sua deformità lo allontana infinitamente dal fratello. Allora, con una logica spietata, egli smaschererà questo convenzionale, camuffato e cadente mondo di "buoni", dove il potere feuduale viene gestito in maniera paternalistica e arte fatta da un vecchio padre bigotto - e come lo definisce Karl, un po' tirchio -, e restaurerà lo stesso potere, ma senza maschera. Tutti dovranno diventare più brutti di Franz e guai a chi si presenterà con le guance rosse e floride. E il meraviglioso Karl, entrato nel mondo dell'azione e del male, di fronte alla Creazione, di cui lui sa comprendere la grandezza e lo splendore, si definirà orribile e mostro schifoso. Così come Franz, nel primo monologo, affermerà che la natura, per impastarlo, ha usato quanto c'era di più schifoso nella razza, umana. Non c'e speranza per i due fratelli, la cui pulsione vitale spinge all'azione, ma che sono condannati ad agire nel male. Karl è condannato a morte. Franz si impicca. E questa continua, ripetitiva alternanza di scena è la chiave della struttura drammaturgica del testo. E' possibile dunque pensare che Schiller, aspirante tirannicida, nascondesse in sé un virtuale tiranno? Il suo amore della libertà come reazione alla tirannica educazione dell'accademia militare, si unisce ad una profonda comprensione verso il personaggio del tiranno e ad un gusto per la crudeltà. Il violento Karl e il fraudolento Franz coesistono dunque nell'animo di Schiller, allo stesso modo di Filippo II e Don Carlos, di Fiesco e Verrina, di Ferdinand e suo padre - von Walter – di Kabala un Liebe. Che cos'è il nostro spettacolo? Questo certamente solo il pubblico può dirlo: troppo spesso le intenzioni del teatrante risultano lontane dall'effetto che provocano sul pubblico. Lo psicanalista Franco Fornaci definisce il teatro una serie di effetti per creare affetti (e chi più di Schiller sembra avere la stessa idea?); certo è che il teatro, cioè l'avvenimento che scocca tra attore e pubblico "quella sera", è difficile da definire nella sua intima essenza. Possiamo scrivere saggi interi stilla comicità, ma una smorfia di Totò potrebbe cancellarli in un secondo. Per cui che dire di questo spettacolo? Il regista forse è la persona meno adatta. La scenografia vuole essere un contenitore realista-onirico che rappresenta un castello diroccato, teatro della vicenda. Castello in rovina che è metafora di un mondo chiuso, gotico, che sembra non accorgersi della nuova aria che sta attraversando l'Europa alla vigilia della Rivoluzione Francese. La foresta - già presente nella scena in quell'albero contro il fondale - è come se occhieggiasse da dietro le quinte e le sue apparizioni, invece di creare uno spazio aperto, dovrebbero dare un maggiore senso claustrofobico. Pochi altri elementi: qui sento la necessità di alcuni appoggi concreti, come il letto o il tavolo, piuttosto che un astratto impianto scenico, e questo per dare a tutta la vicenda il ritmo di un grande "romanzo drammatico", come Schiller definiva il suo drammone. L'incendio finale, se riuscirò a farlo, vuole essere la fine di questo mondo: Non so se tutto questo apparirà o resterà solo intenzione, oggi mi sembra che il tempo sia tanto poco. Ma devo dire che ho lavorato con passione a questo spettacolo, con grande fatica ma soprattutto con grande gioia per la qualità umana, la simpatia, e la disponibilità degli attori, dei tecnici e di tutti quelli che mi hanno aiutato a terminare questo lavoro .
GABRIELE LAVIA - Spoleto Gennaio 1982