ANTICIPO ALLE MEMORIE DI DINA GALLI
Al mio destino di attrice ha certo contribuito la barba di un lanzichenecco
Il primo giudizio di Virgilio Talli fu categorico, ma poco lusinghiero e confortante per me: “La prima attrice giovane non farà mai nulla!”. Ero uscita proprio allora dalla Class di asen di Ferravilla. Di titoli per mettermi in mostra ne avevo pochini; ed anche se avessi avuto simili velleità, non so come ci sarei riuscita, perché a quel tempo, lo giuro ero più piccola e mingherlina di adesso: uno scampolo di donna, uno straccetto e nulla più. Credo che a scritturarmi, Virgilio Talli s'era indotto senza conoscermi. Qualcuno gli aveva forse parlato favorevolmente di me, ed egli, fin da allora ambizioso di far da maestro ai giovani, non ci aveva pensato sopra ad accogliermi nelle sue file.
Immaginate le mie trepidazioni e i miei timori. Passare di punto in bianco da una Compagnia dialettale come quella di Ferravilla in un complesso italiano che riuniva i nomi di Virgilio Talli, Irma Gramatica, Virginia Marini, Oreste Calabresi, Ugo Piperno, Ruggero Ruggeri! C'era da far tremare le vene e i polsi anche ad un Primo Carnera! Sebbene scritturata col ruolo di “prima attrice giovane e amorosa” - a lire undici e cinquanta al giorno - fra così illustri compagni io mi sentivo una povera generichetta e quasi non osavo alzare gli occhi su di loro, convinta che dovessero considerarmi, tutti quanti, con sovrano disprezzo pel solo fatto che venivo dalle scene dialettali.
In così fatto stato d'animo, alla prima riunione della Compagnia sul palcoscenico del Goldoni di Venezia, non aprii bocca. Avevo il terrore di parlare in italiano e mi pareva che il mio pretto accento meneghino dovesse indovinarsi persino quando stavo zitta. Talli mi affidò, a titolo di scandaglio, una piccolissima parte, e ne venne fuori il terribile giudizio di cui ho fatto cenno in principio. Ero servita! Immaginatevi se non divenni ancora più piccina e se da quel triste giorno non cercai di nascondermi sempre di più in palcoscenico. Di lagrime in quelle prime settimane, feci sbrego. E certo dovette essere quella mia aria sparuta e afflitta a indurre il mio severo direttore e capocomico ad affidarmi regolarmente parti serie, drammatiche.
Le cose continuarono ad andare avanti così per parecchi mesi. Io non sapevo nemmeno più come si facesse a ridere. Ma vero è che sul palcoscenico di Virgilio Talli di risate - di quelle buone schiette, argentine, che illuminano come una grande lampada ad arco - se ne sentivano di rado; e, comunque, a commettere una simile infrazione non ero certo io.
Nel carnevale di quell'anno (non ricordo la data che, del resto, non ha proprio alcuna importanza) la Compagnia arrivò al Carignano di Torino. Talli si era infatuato di metter su un grande spettacolo in costume, ed aveva scelto Patria di Vittoriano Sardou. Il “mago” Caramba aveva preparato i costumi, veramente magnifici, ed era venuto egli pure a Torino a prestare aiuto al nostro capocomico. Alle prime prove Talli ebbe un'idea luminosa. “Per le scene di massa - disse – vorrei delle comparse non mercenarie... Ecco, degli studenti. Saranno più disciplinati, indosseranno meglio i costumi, e lo spettacolo acquisterà un altro tono”.
Caramba corse all'Università e mise insieme un bel manipolo di giovani volenterosi, pieni di baldanza, simpatici, giovialissimi. Talli li squadrò accigliato, ad uno ad uno, tenne un discorsetto ammonitore, fece comprendere che esigeva molto dalla loro collaborazione e che sul palcoscenico non avrebbe fatto alcuna distinzione tra attori e dilettanti né ammesso infrazioni alla disciplina. Poi, avvertì che le prove di complesso, in costume, si sarebbero fatte dopo la mezzanotte a spettacolo finito.
La prima prova con le masse durò due ore; la seconda più di tre e la successiva... Talli era di una meticolosità esasperante, e si dimostrava esigente fino all’incredibile persino con gli studenti, i quali, alla fin fine, si prestavano tutti gentilmente. Guai a chi mutava le posizioni prestabilite, o mormorava durante l'azione qualche parolina! Quei bravi ragazzi, tutti più o meno prossimi a diventare medici, professori, avvocati, ingegneri, vestiti e truccati da lanzichenecchi o da pezzenti, erano di una docilità ammirevole. Bisognava vedere come stavano attenti e seri! Si erano accorti fin dal primo momento che con Talli non si scherzava e ne subivano il fascino e il dominio.
Le prove, però, andavano per le lunghe. Io, che nel farraginoso dramma di Sardou ero la giovane figlia del Duca d'Alba, dovevo rimanere immobile e in silenzio, durante interminabili scene, nel quadratino di palcoscenico che mi era assegnato. Alle mie spalle, per tre quarti di un atto, stava uno studente in costume e in funzione di lanzichenecco. Rammento benissimo: un tipo caratteristico con un-bel faccione rasato, rotondo e ridanciano. La prima sera mi aveva salutata con un dignitoso inchino. Poi aveva cercato di attaccare discorso; ma sotto il vigile investigativo e sospettoso occhio di Talli, s'era subito persuaso dei pericoli a cui poteva andare incontro, e s'era rassegnato anche lui al silenzio.
Io me lo sentivo alle spalle, rigido nel suo atteggiamento militare e muto. Ma una notte - doveva essere la quarta o quinta di prova, e l'alba si avvicinava - ad un tratto udii dietro di me un lungo sospiro di noia. Mi voltai appena, e quello mi diede una occhiata sconsolata e significativa. To'! curioso... Fino a quel momento non m'ero mai accorta che il simpatico giovanotto portasse sul mento una piccola mosca. Ma non stetti a pensarci sopra di più.
Qualche minuto dopo il sospiro, più lungo e significativo si ripeté. Girai ancora la testa, per dire sottovoce: “State buono... non fatemi ridere, altrimenti...” quando m'accorsi che la mosca sul mento del lanzichenecco era cresciuta. E ad un terzo respiro dovetti constatare che s'era addirittura trasformata in un arrogante pizzetto alla moschettiera; e questo, dieci minuti dopo, in un vero e proprio onor del mento, in una rispettabile barba professorale che gli scendeva sul giustacuore. Ma la faccia di quel fedel soldato del Duca d'Alba era immobile, impassibile.
Mi stropicciai gli occhi, per sincerarmi che non fosse un effetto della stanchezza e del sonno che cominciava a pesare sulle mie palpebre. Allora, dinanzi al mio sbalordimento, il lanzichenecco mormorò, serenissimo: “Se il signor Talli si fosse anche lui accorto fino a qual punto m'è cresciuta la barba, a quest'ora la prova sarebbe già finita e forse egli dimetterebbe l'idea di rappresentare un simile zibaldone”.
Si ha un bell'essere timidi, paurosi, tristi. Avevo un bel sapere quanto Virgilio Talli fosse terribile e inflessibile alle prove. Dinanzi a quel robusto e simpatico giovanotto che, con la maggior gravità di questo mondo, si era camuffato in varie riprese a quel modo, per esprimere durante la interminabile prova, silenziosamente il suo stato d'animo - uno stato d'animo che avrebbe potuto essere l'indomani quello di un'intera platea - non seppi frenarmi. Fu più forte di me. Non ridevo da mesi e mesi. Ma in quel momento una risata, che parve alle mie stesse orecchie di un gigante, fragorosa come un tuono, una risata di cui non avrei mai supposto capaci i miei polmoni e la mia gola, mi uscì dalle labbra. Non so quanto durasse: a me parve interminabile. L’udirono tutti. L'udì Talli, il quale aggrottò le ciglia e assunse l'aspetto di un Nume irato.
Per me era finita...
Cioè, no. Un mese dopo, ricordando quel mio irrefrenabile scoppio d'ilarità, e convinto oramai, che io non ero nata per le parti serie e per il teatro... barboso, Talli mi affidava, a Bologna, la parte della Crevette nella Dame de chez Maxim di Feydeau.
La crescente barba del lanzichenecco torinese di Patria non fu dunque estranea - io credo - al mio destino di attrice.
Dina Galli