UNA AVVENTURA AMERICANA
Di Anna Magnani
Ero partita male dall'Italia, ero partita di malumore più delle altre volte. Io non amo viaggiare, non amo i bagagli, non amo le preoccupazioni che un viaggio ti dà. Nello stesso tempo vorrei vedere tutto il mondo. Non ho ancora trovato la maniera di conciliare queste due cose. Non amo lasciare casa mia, non amo mai lasciare Roma, perciò il mio umore era piuttosto greve, con l'aggiunta di un certo giustificato timore verso un paese la cui sensibilità, e maniera di pensare e di vivere erano a me completamente sconosciute.
Dopo qualche giorno di navigazione in cui sembravo a me stessa e agli altri un animale preso dal centro della jungla e messo in un giardino di acclimatazione, presi i1 coraggio a quattro mani e mi dissi: “Anna, così diventi matta”. Mi scrollai di dosso tutto, mi vestii un po' meglio del solito per farmi coraggio; mi feci bella quel tanto che mi è possibile esserlo e uscii dalla mia cabina.
Eravamo a Lisbona. “Andiamo a trovare i1 re”. dissi a Renzo Avanzo mio compagno di viaggio, e, insieme a una nostra comune amica, affittammo una macchina e ci avviammo verso Cascais. Dopo quaranta minuti ci fermammo davanti a una piccola villa vecchio stile. L'incontro fu patetico. Io non ho idee politiche di nessun genere, ma non posso dimenticare 1a cordialità affettuosa che Umberto mi aveva dimostrato quando era ancora Luogotenente, invitando me e Fabrizi al Quirinale per visionare “Roma città aperta”. La proiezione risultò penosa. Era una macchina da campo e il film sembrò una comica alla Ridolini. Mentre ripensavo a tutto questo, si aprì la porta e il nostro re era lì, cordiale e sorridente. Mi sentii di colpo emozionata e imbarazzatissima. “Che faccio mo'? Je devo fa l’inchino? Mamma mia!”. Mi aiutò lui: non mi dette il tempo di parlare, mi abbracciò baciandomi sulle guance e mi disse “cara”, s'interessò di tutto, mi chiese del mio lavoro. “Maestà, sono stanca di fare il cinematografo, voglio ritirarmi”. dissi. “Per carità, cosa dice? Se sapessero in Italia quanto bene lei fa al nostro paese! Io solo posso dirglielo che vivo all'estero”. Ripartimmo tutti con un po' di malinconia.
Il viaggio seguitò: il mare era buono, il commissario di bordo era un mio vecchio caro amico, Pescarolo, con il quale avevo fatto il mio primo viaggio nel mio primo anno d'arte nella compagnia di Vera Vergani, oggi sua moglie. “Questo mi porterà fortuna” disse John Ford, anche lui sulla “Andrea Doria”, fu con me molto simpatico e amico, cercò di farmi capire cosa sarebbe successo di me in America. Un altro signore, dirigente di una delle più importanti riviste americane, mi dette ancora altri consigli con tale affettuosa cordialità che io quasi li imparai a memoria e alla fine aggiunse: “Sono sicuro che vi ameranno molto, gli americani. Saranno felicissimi di avere davanti ai loro occhi, un essere vivo come voi, e poi sono tanti anni che vi aspettano!” “A me? Aspettano me?” pensavo io. “Questo è matto”. In fondo in America sono andati soltanto due films miei: “Roma, città aperta” e “Miracolo”: non mi hanno avuto molto sotto g1i occhi. “Vi mangeranno, però, non potrete fare a meno di fare tutto quello che vorranno loro. Buona fortuna, Anna!”. I miei terrori ricominciarono. “Anna' sii serena e brava”, mi dissi.
Così, l'11 aprile, alle 6 di mattina fui buttata giù dal letto da Sandro Pallavicini che mi aveva raggiunta a New York in aereo. “Anna, dammi la mano ed esci con me, non ti spaventare, sono in tanti. Segui me”. Io sapevo che saremmo sbarcati alle l0 e mezzo. Una motobarca con a bordo giornalisti, fotografi, Sandro Pallavicini, i rappresentanti della I.F.E. da cui ero tutelata, avevano raggiunto il piroscafo due ore prima dello sbarco. E così cominciò. “Anna, sorridere” e giù un lampo, tre, quattro, cinque, non ricordo più. “Anna, saluta New York” e ancora un lampo. “Anna... Anna... Anna...”. Erano ordini: cordiali, ma ordini. “Anna, ti chiedono di mostrare le gambe” mi tradusse Natalia Danese, una mia vecchia cara amica che vive a New York e che aveva accettato il difficile compito di starmi vicina durante la mia permanenza laggiù. “Che mi chiedono?” feci io allibita. “Le gambe, Natalia non aveva il coraggio di ripeterlo. “No”, feci io. “Queste non me le hanno viste bene, pensai, se no non me lo avrebbero chiesto”. Non mi piaceva e non lo feci. In mezzo a questa baraonda di lampi e di domande, una giornalista mi rivolgeva sempre la stessa domanda che io naturalmente non capivo. Gli altri seguitavano: “Miss Magnani, please. Cosa è venuta a fare in America?” “Da dove viene: dal teatro o dal1a rivista?” “Cosa sente lei quando interpreta un suo personaggio?” “Quanto si fermerà in America?” “E' vero che è venuta per lavorare in America?” “No, rispondo io, resterò a New York solo un mese, sono venuta per assistere al galà del mio film “Bellissima”, diretto da Luchino Visconti”. “Come?! Non andrà ad Hollywood per lavorare?” chiedevano sorpresi. “No”, rispondevo sorpresa anch'io. “Natalia, per piacere, dimme che vo' questa”. Alludevo alla giornalista che era tornata alla carica. “Francamente nemmeno io so' che vo' questa”, mi rispose Natalia che è romana come me. “Vo' sape' da te che rapporto c'è fra il sesso e ii cinematografo. Che je rispondi?”. Io restai senza fiato. Gli altri insistevano: “Come trova le donne americane? E gli uomini? Che effetto le fa New York?”.
Alle 10 e mezzo, saluti, le interviste erano finite. Cominciò l'operazione di sbarco e ci avviammo tutti all’Immigration Office. Ma la giornalista non si era data per vinta, era ancora lì. Cominciavo ad allarmarmi. Renzo Avanzo non mi lasciava di un passo. Natalia non sapeva più che fare con quella signora. Jonas Rosenfiel, il “Public relation man” e vice presidente della I.F.E. al quale ero stata affidata per la tutela di tutto que1lo che mi riguardava come “relazioni pubbliche” e cioè contatti con la stampa, ricevimenti, ecc., un uomo da1 polso forte e dagli occhi chiari e intelligenti, pure lui impotente di fronte a tanta perseveranza. In nostro aiuto si staccò da un tavolo un sorridente funzionario che, battendo amichevolmente una mano sulla spalla della giornalista con il più dolce dei sorrisi e nel tono più cordiale, ma deciso del mondo, le disse: “E' meglio che tu vada via prima che io ti butti fuori”. E così sbarcammo. All'uscita un gruppo di italo-americani era ad aspettarmi. Avevano scritto “Viva Anna Magnani” su uno striscione di tela che con due bastoni tenevano sollevato in alto. Una bimba ni offrì un mazzo di fiori… (continua)