Da IL DRAMMA - N. 227/228 - Agosto/Settembre 1955:
- L'affettuoso ricordo di Daniela Palmer
Autore: Renato Simoni
DANIELA PALMER
Daniela Palmer, nome d’arte di Giulia Fogliata, nata a Milano l’11 luglio 1907, morta a Roma l’11 agosto del 1949. Figlia della celebre sarta Marta Palmer, di Milano, donna di singolare estrosità e di curiosa ed eccezionale personalità artistica, venne avviata agli studi di medicina ai quali Kiki, cosi chiamata in famiglia, si dedicava nel 1931. Fu Ida Carloni Talli, moglie di Virgilio Talli ed insegnante di recitazione alla scuola Eleonora Duse di Roma, ad invogliarla ed avviarla alla carriera del teatro. Vi entrò “facendo corpo” in un’epoca ancora riservata della scena di prosa, attirando su di sé una certa attenzione mondana. Ma le sue qualità artistiche non tardarono a rivelarsi anche per le possibilità materiali di sua madre, che le permisero, a quel tempo, una compagnia propria e di circondarsi di attori eccellenti. Nel 1939 cambiò il nome di Kiki in Daniela per suggerimento di Gabriele d'Annunzio che, come aveva avuto in considerazione, per gusto nell’abbigliamento femminile e passione d’arte, sua madre, predilesse paternamente anche la giovane attrice.
La pubblicazione di questa commedia, oltre che per il suo valore artistico ed i suoi pregi positivi - che nella introduzione il nostro corrispondente da Londra, Gigi Lunari, si studia di mettere a fuoco sulla scorta degli elementi raccolti appunto in Inghilterra - vuole essere un omaggio alla memoria di Daniela Palmer, detta Kiki, che nel novembre del 1932, al Teatro Margherita di Genova fu la prima interprete di “La famiglia Barrett”, dando vita scenica alla romantica Ba (Elisabetta) che spiritualmente morto le somigliava. Certo che Elisabetta Barrett - colei che a otto anni già scriveva versi, a quattordici pubblicò Battle of Marathon ed a trentanove fu considerata la più grande poetessa inglese della sua epoca - dovette avere non poca influenza sul temperamento e la sensibilità di Kiki Palmer. Questa nostra intuizione, dettata dal ricordo vivo che ancora abbiamo dell'intelligente e tormentata attrice, trova maggior considerazione nelle splendide parole che Renato Simoni scrisse sul “Corriere” il 12 agosto 1949 in morte della ancora giovane attrice. Daniela ei era uccisa a Roma, il giorno avanti, passando dal sonno volontario alla morte.
Quando Daniela Palmer si presentò per la prima volta a una ribalta, il sipario si alzò sopra una scena ornata di fiori. La commedietta in un atto che si rappresentava non computava questo splendore primaverile; ma gli amici della giovinetta avevano mandato all’Arcimboldi questi saluti, questi auguri in si grande quantità, che la grande tenerezza di Marta Palmer e di Eva Mangili pensò forse di tramutare il palcoscenico in un giardino splendente. Per l'attrice che s'è uccisa ieri, quella fu una sera meravigliosa; recitava, era applaudita, la vita era una fiaba.
Più tardi la fiaba divenne realtà, e Kiki Palmer conobbe le prime leggere difficoltà e le difficoltà gravi. Intelligente, sospinta dalle meravigliose forze del suo spirito verso il teatro, celebrata subito da quelle due donne che l'adoravano e dalle signore che indossavano le belle vesti della geniale Marta Palmer, Kiki era troppo naturalmente artista per non rendersi conto che per fervore e per amore, le facevano bruciare le tappe troppo in fretta; e una punta di malinconia e il sospetto d’essere troppo adulata la amareggiavano. Ci volle almeno un decennio perché ella diventasse l'attrice pensosa che fu; un poco come dire? involta in uno sua, ombra, ma sempre tendente alla purezza dell’espressione e sicura di raggiungerla, non per furberia di mestiere, ma per scelta artisticamente sicura. Ma, nei primi tempi, se ancora, ella era un poco dubbiosa, le sue due compagne di vita non avevano dubbi; e, nella casa di Marta, dove ragazzi poveri trovavano e anche trovatelli, non già ospitalità, ma una dimora sicura, e tre signore liete, affaccendate, immaginose, tutte intorno ad essi, la giovane attrice era beata. Un giorno le dissi: “Kiki, se vuol darsi, per sempre al teatro, abbia il coraggio di togliersi a queste morbidezze, a queste lodi, a queste ammirazioni già previste; si scritturi, in una Compagnia, e faccia, la sua strada faticosamente”. Ed ella mi rispose: “Lei vuol togliermi il mio paradiso!” E il paradiso non le fu tolto: la Compagnia, per lei la fondarono Marta ed Eva; e ogni sera la cara Kiki, appariva splendidamente e fantasticamente vestita, in un arcobaleno di sete, di rasi, di velluti, tra i broccali di costumi secenteschi, e i falbalà settecenteschi; e la mamma vera e l’altra mamma, quando ella era in scena, scendevano in fondo alla platea, vestite da casa, e dare di lei udibilmente giudizi esaltatori. La Compagnia si, resse abbastanza, a lungo, passivissima. Quando si sciolse, cominciò a formarsi la vera Daniela Palmer. Quel facchinaggio assurdo, tutte quelle commedie, spesso maggiori di lei, recitate più o meno bene, erano però state un costoso, ma non inutile tirocinio. Dopo d'allora, scritturata o no, recitando o no, quella cara figliola che aveva negli occhi, quando li alzava verso chi le parlava, una dolcezza di bontà, si cercò, si trovò, scelse le vie dell’arte difficile; sempre idolatrata da Marta e da Eva, esaltandosi con esse in visioni, in sogni, in propositi di bellezza artistica; ma studiando con più dura disciplina di se stessa, cosciente di quello che voleva; mesta, anche per generosi, desideri d’altezze irraggiungibili; mestizia che divenne uno strazio, portato sempre vivo nel cuore, quando le morì la, madre; che chiamava sempre Marta, e non “Mamma”, per una particolare forma di rispetto per la mente di lei, mente che era certo singolare, e che Kiki definiva grande.
Dopo la morte di Marta, non so che ombra o piega di duro fiero dolore le si travide spesso a sinistra della bocca. Ma anche quel dolore l'aveva scavata dentro, nell'anima, nel cervello, nelle aspre o assorte meditazioni dei suoi personaggi. Era diventata la Kiki, che per un certo tempo, per obbedienza a Gabriele d’Annunzio, si nomò Palma Palmer, un'attrice non facilmente sostituibile nelle interpretazioni, ardue; ma quasi inamovibile, se non per brevi traslochi, da Roma, dove la presenza e l’amicizia di Eva valevano per lei più di tutte le vittorie teatrali.
Era già in una penombra buia, dimentica di sé, in attesa sospettosa del più grande dolore: ma la presenza animatrice di Eva riassumeva per lei il passato. Marta, le speranze di una volta, che forse non amava più, ora che aveva compreso quale amaro e consumante incantesimo ha l'arte del teatro; e il suo valore, ora riconosciuto non le dava che una gioia incompiuta. Forse certo s’illudeva che, quella sciagura sospesa e consolata dalla realtà, cioè dalla presenza dell’amica, fosse un incubo assurdo.
Parlare del proprio dolore diventa una mite pena se chi ci ascolta sa, capisce, vuol bene. Ma quando, pochi mesi orsono, morì Eva Mangili, la sua solitudine divenne più completa. E tuttavia non deve essersene resa conto subito. Il dolore quand’è recente, anche se è grandissimo, ha un’animazione disperata, un che di convulso che, in fondo, è incredulità. E Daniela, dapprima credette di poter vivere di memoria, di lagrime, di invocazioni; tanto è vero che stava andando a Napoli a provare “I capricci di Marianna” di De Musset. Ma improvvisamente deve essersi fermato per lei; non solo l’imminente avvenire, ma l’inutile terribile presente. Dov'erano i ragazzi poveri, i trovatelli, accolti e allevati alla grazia di Dio, tra buoni, cibi e chicche e risate in casa di Marta Palmer? Avesse potuto udire, Daniela, uno di quei, gridi festosi! Tutti lontani, tutti lontani; i morti e i vivi. Più nulla, neppure l'arte perché era sempre stata sognata in tre: e poi in due. Si è dunque voluta ostinatamente addormentare per sognare, non già la morte, ma il ritorno a casa fra Marta ed Eva; invece nel sonno, è scesa giù: nel pallido abisso di là d’ogni desolazione è la misericordia divina.
Renato Simoni
La famiglia Barrett è stata anche recitata in una famosa edizione da Andreina Pagnani, che recentemente l’ha anche trasmessa per radio.