Verga, primo amore.
Avremmo dovuto credere in una Italia di cartapesta, alle battaglie del grano, al melenso connubio fra l'aratro e il solco, magari con la complicità della spada per proteggere tutti e due: ci rovinavano i sabati vestendoci in grigioverde, ci tenevano lontani dalla realtà del nostro paese indicandocene un'altra che esisteva soltanto sulle veline ministeriali. Verdi era diventato il cantone del nostro nazionalismo, Bellini lo era assai meno per via della gaffe antiromana di "Norma"... D'Annunzio invece si, perché Gabriele D'Annunzio era l'aedo di una generazione a cui il fascimo doveva tutto... eppure, a dispetto di tutto questo, riuscimmo a leggere anche Verga, a capirlo, ad innamorarcene. Era un autore quasi introvabile, se non in certe selezioni per il "classico" che però la mia generazione non aveva neppure l'obbligo di leggere. Mi ricordo che una volta ci divertimmo a contare ben trentanove edizioni delle opere di D'Annunzio contro mi pare quattro di Verga e per di più esaurite da tempo. Oppure in corso di ristampa. Un "corso di ristampa" che non vide esecuzione se non dopo la guerra e anche allora, bisogna dire, quasi a malincuore. Forse non era soltanto colpa del Fascismo: era, molto semplicemente, che agli italiani questo autore scontroso, scomodo, amaro che dava voce alle angoscie profonde dell'umanità, ad una coscienza incoffessata, dava francamente fastidio. Quasi come avere un Cassandra in famiglia, una "bestiaccia del malaugurio". Eppure a noi che reagivamo inconsciamente alle illusioni balorde che ci venivano proposte, Giovanni Verga piacque proprio per questo. Era l'unico scrittore italiano che insieme a Benedetto Croce mettevano, con una punta di compiacimento snobistico, addirittura nell'Olimpo delle nostre letture "raffinate", accanto a Hemingway, Rimabaud, Kefka e pochi altri ancora. Fu uno dei più grandi amori giovanili.
"La lupa" era incastrata lì, tra "L'amante di gramigna" e "Jeli il pastore". Ricordo che la prima lettura a diciassette anni mi fulminò e "La lupa" mi restò ficcata in mente da allora come quelle spine nel cuore, quelle passioni impossibili e senza speranza che accompagnano l'esistenza di tanti personaggi di Verga. Rimasi male quando ne fecero un film indegno che vidi proprio dopo aver vissuto per molti mesi ad Acitrezza con i pescatori de "La terra trema". Anche per Visconti "La terra trema" fu un atto d'amore, e lo si sentiva in ogni momento delle tre ore difficilissime di proiezione. Verga non è un autore facile, le sue creature "che sorridono malgrado tutto" che non sperano di essere amate ma che anzi si chiudono fin che possono nei loro scialli neri e nei loro proverbi, senbrano dare ad ognuno di noi il messaggio più sgradevole e difficile da accettare.
E cioé che nel mondo non c'è giustizia e non c'è rimedio. E nel costante conflitto fra i buoni e gli egoisti, fra gli angeli e i demponi, è sempre invariabilmente il buono e l'angelo che ne escono sconfitti. La lupa non sfugge a questo destino verghiano, angelo anche lei e vittima di una atroce decisione del caso. Anzi, presenta quasi il caso limite della tematica di Verga, dove il male e il bene che ognuno porta con sé nella gnà Pina albergano contemporaneamente e ne fanno forse il suo personaggio più moderno e anche uno dei più torturati ed esasperanti della nostra letteratura. La sua scarsa fortuna in passato è certo dovuta anche a questo.
Ma oggi penso che abbiamo gli strumenti per poterlo accettare e comprendere. E possiamo perfino molto semplicemente ammettere che "La lupa" è uno dei testi drammatici più coraggiosi e robusti del nostro teatro. Ma non è di questo in fondo che volevo parlare. Perché questo spettacolo è per me il saldo di un antico debito sentimentale. Anzi di due. Due amori giovanili: Giovanni Verga e Anna Magnani
FRANCO ZEFFIRELLI