Dal Libro "La Teresa: storie grame di povercrist" Edizioni Landoni Canegrate (MI) - V° Edizione 1990
I° Edizione 1975
- Introduzione aggiornata
Autore: Felice Musazzi
INTRODUZIONE DI RENATO BESANA E GIORGIO D'ILARIO PER LA PUBBLICAZIONE DELLA QUINTA EDIZIONE
Il camerino è vuoto: la Teresa se ne è andata a riflettori spenti, lasciando persino l'inseparabile "vulpa", suo unico vezzo. Il 4 agosto 1989, in una Legnano chiusa per ferie, Felice Musazzi è uscito di scena. Sulla sua scrivania, nella copertina rossa, era rimasto il canovaccio di Va là tranvai, che avrebbe dovuto aadare in scena in autunno. Le prove erano già cominciate. Chi aveva potuto assistervi, aveva visto Teresa impegnata come faccendiera nell'assegnazione e vendita di tombe al cimitero, dove teneva anche un ufficio con tanto di loculo-bar per il conforto dei dolenti. Un ultimo lampo di humour nero, quel volgere la tragedia in farsa che di Musazzi rappresentata il tratto saliente; e il ricordo sale a Delio Tessa, a L'è el dì di mort, alegher! Purtroppo dei testi di Musazzi ben poca cosa resta per la storia del teatro, pur popolare come questo era e voleva essere. Bisognava vederla la Teresa, non leggerla. Sulla parola scritta prevaleva sempre l'improvvisazione, la smorfia, il meccanismo scenico. Alcuni episodi dell'epopea minima narrata, cantata e ballata dai "Legnanesi" intorno al cortile lombardo, sono stati trasporti in questo libro. Non c'è tutto, non c'è molto: non le battute più legate al contrappunto dell'attualità, ma i caratteri si, quel mondo "comico per eccesso di verità", come l'aveva definito Ennio Flaiano nel 1964. Non manca, dopo la prefazione di Giovanni Testori, la storia in gran parte inedita di Musazzi attore e autore, i suoi incontri le sue fortune, che si identificano con quelle dei Legnanesi. E ancora: una testimonianza resa da Musazzi stesso nel 1978: segue un ampia antologia critica aperta da Alberto Arbasino. Come in ogni rivista che si rispetti, gran finale in "passerella". Sfilano i quaranti'anni dei "Legnanesi", dal dopoguerra al Maurizio Costanzo show.
Ringhiere che si arrotano sui ballatoi, scale consumate dal saliscendi di generazioni, ogni porta una stanza, spesso l'unica.
Il vicino è così vicino che vive con te.
Il cortile: la catasta dei povercrist, sopravvissuto alle guerre alle carestie, alle immagrazioni, alle industrie.
Il cortile: lo spazio vuoto, che è la camera più grande dove si vivono stagioni intere, anni, generazioni, secoli, nascite, amori e corna, gioie angoscie nozze e funerali, sorrisi e miracoli. Tutto.
Fuori dal portone il muro di cinta lungo lungo di uno stabilimento, oltre la strada un altro muro di mattoni rossi, dietro un muro un altro muro che divide in due i reparti della filanda. Dopo i reparti, una strada ma stretta stretta con altri portoni, nuovi cortili e muri.
Muri di cinta, una fabbrica metalmeccanica; ancora muri e case, un condomio di sei piani che già chiamano il grattacielo e poi la nostra città finisce qui.
Un po' di campagna non ancora cancellata dalle strade prima di un altro muro, un'altra città.
Piramidi di sabbia e di mattoni, molti vetri niente aria.
Adesso sono arrivati i condomini e non ricordi più nulla, tutto è cancellato.
Hanno distrutto le parole, le liti, le lenzuola sul filo di ferro, le pozzanghere, la ruggine...
Ma noi abbiamo resistito.
La ringhiera ci corre nell'anima.
Riflettori prego: è di scena il cortile lombardo.
Felice Musazzi