TEATRO DE GLI INCAMMINATI presenta:
Il malato immaginario (1999)
Di Moliére
- Interpreti: Franco Branciaroli, Susanna Marcomeni, Mimmo Graig, Luca Sandri, Teresa Vanalesti, Anna Sala, Alarico Salaroli, Antonio Zanoletti, Gianluca Gobbi, Valentina Arru, Sante Calogero
- Traduzione: Patrizia Valduga
- Musiche: Filippo Del Corno
- Scene: Luisa Spinatelli
- Costumi: Vera Marzot
- Regia: Lamberto Puggelli
Link Wikipedia
1. Branciaroli - Foto di scena
Programma di sala (pagine 40)
- Il silenzio di Molière (G. Macchia)
- Le malade d'immaginaire (Luca Dominetti)
- Dal primo all'ultimo Molière (Carlo Maria Pensa)
- Problemi di traduzione (Patrizia Valduga)
- Fotografie
Dal primo all'ultimo Moliére
Questo, di Lamberto Puggelli con Molière, era un incontro pronosticato da tempo. Perché è naturale, e succede spesso, che un regista abbia i suoi autori preferiti, ma il rapporto di Lamberto con Jean-Baptiste - attori entrambi, l'uno soltanto per alcune stagioni, l'altro per tutta la vita - è un legame che va al di là di una certa convenzione. Fu proprio con quella che si considera la prima vera commedia di Molière, Lo stordito, che, quasi venticinque anni fa, cominciò il sodalizio. Così come giusto con Mascarillo, il protagonista, comincia la storia delle Maschere molieresche che arriverà ai vertici di Sganarello e di Scapino. In frenetica gara con Mascarillo, che inventa macchinazioni di ogni genere per favorire l'amore del suo stordito padrone Lelio, invaghito della bella schiava Celia, Puggelli montò - lo ricordo bene - uno spettacolo così ricco di invenzioni, di gags, di soluzioni comiche, di esagitazioni mimiche e coreografiche da rimanerne quasi soffocati. Fu poi, nell'84, il tempo delle Furberie di Scapino, altro servo di fervidissima immaginazione, non tanto per interesse personale quanto per il gusto di gabbare il prossimo. Ritratto di un maneggione come ce n'è tanti ancora oggi, un infallibile manipolatore della verità, un grande maestro di intrighi e menzogne che abbindola due padri tignosi, Argante e Geronte, spillando loro denaro da passare ai rispettivi figli. I quali possono così tenersi le spose desiderate e non quelle che i genitori avrebbero voluto imporre. Salvo poi scoprire che le scelte combaciano, le fanciulle essendo, in un tiro incrociato di parentele, anche figlie dell'uno e dell'altro vecchio: con il finale, registicamente gustosissimo, delle esequie di Scapino, finto moribondo per farsi perdonare le sue tante mariuolerie, e di un allegro, lauto pranzo. Antico il motore, ma sorprendenti le modernità che ne trasse Puggelli orchestrando uno spettacolo fedele agli estri molieriani, ma ricco di trovate efficaci, mettendoci dentro, per soprammercato, due idee importanti: l'una, di dare alle due ragazze, nelle loro brevi apparizioni, il risvolto di una civetteria che la sa lunga in materia di sesso e dintorni; l'altra di lasciar liberi i volti dei personaggi, calandoli però in una concitata atmosfera da primitiva commedia dell'arte. Tre anni dopo, Le donne saccenti, una commedia ingannevole, se non addirittura ambigua. Ingannevole perché con l'aria di satireggiare le storture di un ambiente nel quale sembrerebbe di riconoscere certi colti salotti del nostro tempo cialtronesco, libera ventate reazionarie sullo snobismo della cultura femminile, servendosi per giustapposizione, e qui è l'impronta della fantastica libertà del poeta, di una umanità maschile invertebrata o sciocca o volgarmente ottusa. E se, in conclusione, a vincere sono, inevitabilmente, l'amore e il buon senso, resta tuttavia il quadro di una frantumata società borghese, da far tutto un fascio di dame svaporate, scrittorucoli, padroni e servi, mentre Saggezza e Virtù stanno soltanto a Corte. Commedia ingannevole se non addirittura ambigua, dicevo, che pure divertì moltissimo grazie alla regia di Puggelli, aduso a rispettare i classici ma anche a correre senza cavezza reverenziale sul terreno della comicità. E a proposito di comicità, quando arrivò il momento dell'Avaro come non pensare che Goethe definì questa commedia "una delle opere più tragiche di Molière"? C'era, per giunta, a rendere perigliosa la messinscena, il carico di una tradizione di grandissimi interpreti, in Italia e all'estero, mentre qui, nel '97, Puggelli avrebbe dovuto, su un'idea di Strehler, ricreare Arpagone in un attore assolutamente insolito quale Paolo Villaggio. Fu - non sembri eccessivo dirlo - una battaglia vinta, proprio per il gusto con cui la regia, senza nulla togliere alla comicità del tragico e alla tragicità del comico, compose uno spettacolo poeticamente ispirato e di assoluta eleganza classica. Ora è tempo di Malato immaginario, l'ultimo Molière. Penso che Lamberto Puggelli avrà saputo affrontarlo con lo stesso entusiasmo con cui affrontò il primo.
CARLO MARIA PENSA