La PLEXUS T organizzata da Lucio Ardenzi presenta:
La gatta sul tetto che scotta (1984)
Commedia di Tennessee Williams
- Interpreti: Carla Gravina, Mario Carotenuto, Gianna Piaz, Roberto Alpi, Anna Zapparoli, Massimo Loreto, Stefania Raspino, Massimiliano Raspino, Franco Calogero, Felice Leveratto, Bobby Rhodes
- Traduzione: Gerardo Guerrieri
- Scene e Costumi: Vittorio Rossi
- Direzione artistica: Mario Carotenuto
- Regia: Giancarlo Sbragia
Link Wikipedia
- 1. Carla Gravina 2. Mario Carotenuto - Foto di scena - Tennessee William
Programma di sala (pagine 20)
- Strettamente personale (Tennessee Williams)
- alcune critiche al debutto
- Una risposta di Williams
- Cenni storici - foto d'epoca
- Fotografie di Tommaso Le Pera
Strettamente personale
È un peccato, certo, che la maggior parte del lavoro creativo sia tanto intimamente collegata alla personalità di chi lo fa. È triste e imbarazzante e sgradevole che quelle emozioni che pungolano l'artista a dar loro espressione, ed una carica espressiva che abbia in sè luce e forza, siano quasi tutte radicate, quale che sia il loro aspetto superficiale, negli interessi particolari, e a volte bizzarri, dell'artista stesso, in quel mondo speciale, nelle sue passioni ed immagini, che ciascuno di noi intesse intorno a sè dalla nascita alla morte, una ragnatela di complessità mostruosa, filata ad una velocità incalcolabile dalla bocca di ragno delle proprie particolari percezioni. È un'idea di solitudine, una condizione di solitudine, così terribile al pensiero che di solito evitiamo di pensarci. E così parliamo fra noi, ci scriviamo e mandiamo telegrammi, ci facciamo telefonate urbane, interurbane, intercontinentali, ci stringiamo la mano quando ci incontriamo e quando ci lasciamo, ci combattiamo e persino ci distruggiamo l'un l'altro e solo a causa di questo sforzo, in qualche modo sempre contrastato, di spaccare le pareti che ci separano l'uno dall'altro. Come diceva il personaggio di una commedia: “Siamo tutti condannati a rimanere segregati nella nostra pelle”. Il lirismo personale è il grido prorompente da prigioniero a prigioniero dalla cella d'isolamento in cui ciascu¬no è segregato per tutta la vita. Una volta vidi un gruppo di bambine su un marciapiedi, in Mississippi, tutte abbigliate nei fronzoli smessi delle loro madri e sorelle, cenciosi vecchi abiti da ballo e cappelli piumati e tacchi alti, che giocavano a fare le signore in un salotto, con una perfetta riproduzione della garbata leziosità meridionale. Ma una delle bambine non era soddisfatta dell'attenzione che le altre prestavano alla sua ispirata interpretazione, troppo coinvolte esse stesse in quella recita, e così allargò le braccine magre e allungò quel suo collino magro e strillò al sordo cielo e alle compagne altrettanto disattente: “Guardatemi, guardatemi, guardatemi!” Ed a quel punto, le scarpe a tacco alto di sua madre le fecero perdere l'equilibrio, e lei ruzzolò sul marciapiede in un groviglio di satin bianco sporco e tulle rosa strappato, e ancora nessuno la guardava. Mi chiedo se non sia, adesso, una scrittrice del Sud. È chiaro che non sono solo gli scrittori del Sud con un'inclinazione al Iirismo, che compiono questi atti istrionici, e gridano, “Guardatemi!” Forse questa è una parabola per tutti gli artisti. E non sempre crolliamo a terra in un groviglio di bardature fuori misura. Nonostante ciò, è bene rendersi conto che quel pericolo esiste, e di non contentarsi a richiedere attenzione, di sapere che dal proprio personale lirismo, dall'istrionismo da marciapiedi, si deve creare qualcosa che non attrarrà solo gli osservatori ma anche i partecipanti alla nostra recita. lo mi sforzo di far questo con molto impegno ed a volte mi sento in grado di riuscirci. A volte, quando l'ispirato istrione da strada che è in me grida, “Guardatemi!”, sento che i miei tacchi spericolati e orpelli fantastici potrebbero anche non farmi perdere l'equilibrio. Allora, d'un tratto, può capitare che voi compagni di questa recita sul marciapiedi mi diate la vostra attenzione e mi permettiate di tenerla, almeno per il tempo che va dalle 20 e 40 alle 23 e qualcosa. Undici anni fa, a Marzo, quando mi trovavo più vicino di quanto pensassi, a soli nove mesi, da quel qualcosa sempre aspettato e a lungo differito che era lo scopo della mia vita: il momento in cui per la prima volta avrei catturato l'attenzione di un pubblico, scrissi la mia prima prefazione ad una lunga commedia. Il paragrafo finale era questo: “C'è troppo da dire e non basta il tempo per dirlo. E non basta la forza. Non sono un bravo scrittore. A volte sono davvero un pessimo scrittore. Credo che non vi sia neanche uno scrittore di successo nel mio campo che non possa scrivere parole molto più alate delle mie ... ma io penso allo scrivere come a qualcosa di più organico delle parole, qualcosa di più collegato all'essere e all'azione. lo voglio lavorare con un teatro sempre più plastico di quello con cui ho lavorato finora. Non ho mai dubitato neanche per un momento che vi siano delle persone - milioni di persone - a cui rivolgersi. Ci avviciniamo l'uno agli altri, poco a poco, ma con amore. È la imitata estensione delle mie braccia ad essere di ostacolo, non l'ampiezza e la molteplicità delle braccia di coloro a cui mi rivolgo. Con l'amore e con la lealtà, l'abbraccio è inevitabile”. Questa mia dichiarazione dell'epoca, tipicamente emotiva, se non retorica, pare implicare che io pensavo di avere un rapporto molto personale e addirittura intimo con la gente che va a teatro. Lo pensavo e lo penso tuttora. Una timidezza morbosa mi impediva un tempo di comunicare direttamente con la gente, e probabilmente è questa la ragione per cui ho cominciato a scrivere commedie e racconti. Ma persino adesso che quella timidezza silenziosa e contorta, che mi annodava la lingua ed avvampava il viso, si è consumata col passaggio di quella turbolenta giovinezza da cui scaturiva, io penso ancora che sia più facile trovare un rapporto con folle di sconosciuti nell'ovattata semi-oscurità di un teatro, che non con della gente che mi siede davanti all'altro lato di un tavolo. Quel loro essere sconosciuti in un certo senso li rende più familiari e più raggiungibili, e con loro mi è più facile comunicare. So benissimo che a volte mi sono illuso troppo che la simpatia e l'interesse per coloro a cui spavaldamente mi rivolgevo venissero corrisposti, e ciò mi ha portato ad essere respinto in modo così traumatico e dispendioso da ispirarmi una maggiore prudenza. Ma quando soppeso l'una e l'altra cosa, una facile simpatia contro un difficile rispetto, l'ago della bilancia pende sempre nella stessa direzione, e quali che siano i rischi d'essere trattato con freddezza, insisto nel non voler parlare alla gente solo degli aspetti superficiali della loro vita, di quel genere di cose, cioè di cui conoscenti occasionali i ridono, e chiacchierano negli incontri mondani. No! - voglio continuare a parlarvi liberamente e intimamente di ciò per cui viviamo e moriamo, come se vi conoscessi meglio di qualsiasi altro che voi conoscete.
Tennessee Williams
(Prefazione all'edizione in volume di CAT ON A HOT TIN ROOF)