Compagnia Proclemer - Albertazzi presenta:
La governante (1970)
Due tempi di Vitaliano Brancati
- Interpreti: Anna Proclemer, Gianrico Tedeschi, Pino Colizzi, Franco Giacobini, Manuela Andrei, Ileana Rigano, Anita Bartolucci, Giovanni Cirino
- Musiche: Leopoldo Gamberini
- Scena: Ferdinando Scarfiotti
- Regia: Giuseppe Patroni Griffi
Link Wikipedia
- 1. Tedeschi - Proclemer 2,Pino Colizzi 3.Franco Giacobini 4.Manuela Andrei - Foto di scena
Programma di sala (pagine 32)
- Due ricordi a proposito della Governante (Sandro De Feo)
- Brancati e la Governante (Anna Proclemer)
- Brancati e gli italiani (Giuseppe Patroni Griffi)
- Gli attori
- Giuseppe Patroni Griffi
- Foto di scena
Brancati e la Governante
Genova 22 gennaio 1965. Da due settimane stiamo provando La Governante di Vitaliano Brancati. Sono angosciata. Cerco di capire perché La Governante è un testo arduo, ma, in sé, non più di altri. Per me è la prova più delicata e rischiosa che io abbia mai affrontata. Sì, perché a questa commedia è legato un tale bagaglio di ricordi, di esperienze private e sentimentali, da farne un'occasione particolare, unica. Brancati la scrisse per me. E bisogna pensare a quello che significava, per lui, scrivere una commedia per sua moglie. Per lui, siciliano, che all'inizio aveva guardato alla mia attività teatrale con diffidenza, se non addirittura con sgomento. Ci eravamo conosciuti su un palcoscenico, è vero, al Teatro dell’Università di Roma, nel 1942. Era la mia prima esperienza di Teatro, dopo anni di attesa, di frenetica incubazione di una vocazione che fin da bambina si era rivelata limpidamente inalienabile. Ora, finalmente, cominciava la mia vera vita. Era uno spettacolo di atti unici. Ce n'era uno anche di Brancati, Le Trombe di Eustachio; ma in quello recitava Giulietta Masina. Gli altri erano di Fulchignoni e di Longanesi. lo avevo piccole parti, ma ero sempre in teatro, fanatica. E quel signore siciliano, magro magro, con i baffetti, scrittore già affermato (aveva avuto un grande successo con Don Giovanni in Sicilia) era sempre lì, alle prove. Aveva un cappotto scuro, lungo, e un cappello duro. Un sorriso un po' ambiguo e un modo di parlare pacato e ironico, a bocca stretta, con una pronuncia meridionale che gli faceva scivolare la erre, gli allargava le vocali. Diceva “Ròma” .. con la “o” aperta e “spaventoso” come con la esse ci. Avevo letto il Don Giovanni, di nascosto dai miei che lo consideravano “un po' troppo spinto per una ragazzina”. Ammiravo Brancati, lo trattavo con rispettosa compuzione, come una persona anziana (aveva 35 anni!) e arrivata. Nell’atmosfera un po’ goliardica e alla mano di quel teatro, egli portava una misteriosa aria di riserbo, di rispetto, di una civiltà d'altri tempi. AI contrario di tutti gli altri, che mi trattavano con cameratesca rudezza e talvolta perfino con volgarità, questo importante signore mi dava del lei, si alzava in piedi quando arrivavo e mi chiamava sempre “signorina “. Talvolta, finita la prova, mi accompagnava alla circolare rossa, che a quell'ora tarda non passava mai e ricordo delle lunghe attese sotto gli alberi di viale della Regina. Il vento gelido di quell'inverno rigidissimo gonfiava la mia pelliccia di agnellone (quella stessa che, dieci anni più tardi, lui ricordò con tenerezza in Paolo il caldo dicendo che era diventata la “cuccia della nostra cagna Nina”). Io ero molto giovane e, con tutte le mie arie d'intellettualoide, molto ingenua. Chissà come dovevo sembrargli buffa! Sapevo che stava per tornare a Catania, ai suoi incarichi di professore. Un giorno mi arrivò una sua lettera. Una lettera meravigliosa. Una lettera d'amore. Risposi, goffamente, con una lettera compunta e cretina della quale ancora oggi arrossisco. Lui tornò in Sicilia, senza una parola. Poi ci scrivemmo, qualche volta. Lettere formali, imbarazzate, da entrambe le parti. Più tardi gli alleati sbarcarono in Sicilia. L'Italia si divise in due e non potemmo più comunicare. Ebbi sue notizie da amici comuni che avevano passato le linee. Chiedeva di me, voleva sapere dov’ero, come stavo, cosa facevo. Nell'estate del ‘45 capitai a Catania con una troupe cinematografica per girare Malìa con Cervi, Brazzi, Lupi, Maria Denis. Ci rivedemmo, dopo anni. Non ho più amato la Sicilia come in quei giorni. Anzi in quelle notti. Dopo l’asfissiante mediocrità del lavoro del cinema, il caldo di quei pomeriggi assolati, roventi, passeggiavamo sino all'alba in una Catania magica e astratta, che forse avevamo inventato insieme perché non l'ho mai più ritrovata. Mi presentò certi suoi strani amici, straordinari personaggi di provincia, pieni di manìe, di tic, di grandezza, talvolta di genialità, che tante volte lo avevano ispirato nella sua opera. Mi insegnò ad amare Chopin, Bellini, Keats, Leopardi. Mi insegnò soprattutto, ad amare l'idea di una vita insieme. La estate successiva ci sposammo, a Roma, in una chiesa ancora in costruzione, con i soli testimoni. Avevo un vecchio tailleur bianco, un cappellino rimediato all’ultimo minuto e nell’uscire di chiesa mi si smagliarono le calze. Ci accampammo in casa dei miei i quali, amorosamente, ci dettero la loro camera e si rifugiarono in uno stanzino vicino alla cucina. Avevamo pochissimi soldi e nessun senso pratico. Un anno dopo nacque nostra figlia Antonia ed io ripresi a lavorare. Compresi subito che a Vitaliano questo non faceva piacere. Anche se mai me lo disse, mai me lo fece capire direttamente. Iniziò allora uno strano periodo, ambiguo e pieno di compromessi. Io recitavo, è vero, però cercavo di farlo il più possibile a Roma. A volte rifiutavo, senza nemmeno dirglielo, proposte molto allettanti che mi venivano da altre parti. Al teatro appartenevo troppo sporadicamente, con l'aria della signora in visita. Fu così che mi feci la fama dell'attrice preziosa e intellettuale, della dilettante di classe. All'ambiente di mio marito, ai suoi amici intellettuali di via Veneto, appartenevo ancora meno. La mia morbosa timidezza degli anni infantili mi stava di nuovo addosso, come una corazza. Riuscivo a nasconderla fingendomi distaccata e vagamente annoiata. Ma lui non poteva non accorgersene. Senza che mai ne parlassimo chiaramente (era tipico del riserbo naturale di entrambi non affidare a discussioni la risoluzione dei nostri problemi) vidi a poco a poco mutare il suo atteggiamento nei confronti del teatro. Vide con quanta pignoleria e serietà ero abituata a lavorare; assistette a qualche prova, conobbe qualcuno dei miei compagni. Pur addolorandoci quando qualche impegno ci costringeva a separarci, ci sentivamo reciprocamente più liberi. Fu così che dopo aver scritto la commedia Una donna di casa, che in fondo era una satira della gigionesca cialtroneria di certi attori e di certo teatro, concepì e scrisse La Governante. L’idea gli venne da una governante di nostra figlia che avevamo avuto in casa per un certo tempo. Ma com'è curioso il meccanismo dell'ispirazione negli scrittori. La poverina, un essere timido, religiosissimo e casto, non saprà mai di avergli ispirato un personaggio ambiguo, e maledetto da certe tendenze innaturali delle quali, io sono certa, ella ignorava persino la esistenza! La commedia fu immediatamente bocciata dalla censura. Forse i censori si fermarono all'apparenza di certi fatti narrati e non seppero o vollero vedere che si trattava di una delle commedie più morali del teatro moderno. Sì, perché io credo che sia “morale” rappresentare il caso di coscienza di un essere che si dibatte nelle spire di un vizio che “non vuole accettare”. Anche se tutto il mondo intorno, se molti grandi scrittori, anche se la filosofia stessa sembrano disposti ad assolverla. lei dice: no. Rifiuta di essere liberata dal rimorso. “Vogliono togliermi il rimorso, il mio rimorso, il solo bene che ho nella vita... “ dice ad un certo punto. Rifiuta di essere perdonata. Rifiuta di essere assolta. Fu molto doloroso per entrambi che la commedia non ottenesse il visto di rappresentazione. Fu per questa profonda amarezza che Brancati scrisse Ritorno alla Censura. Un pamphlet violento contro la mentalità di certi nostri governanti di allora. Nel 1954 Brancati morì. E io so che il non vedere la sua Governante rappresentata da me fu per lui un vero dolore. Dalla sua morte sono passati dieci anni. Durante i quali altre due o tre volte tentai di far mettere in scena la commedia. Nel 1957, l'anno del “Cappello pieno di pioggia”, la mettemmo addirittura in prova. Di nuovo arrivò la lunga ottusa mano della censura a dire: no. Ora, finalmente, sgombrato il campo da certe assurde eredità del fascismo, grazie alla più illuminata mentalità di chi oggi al governo si occupa del teatro, la commedia può andare in scena. E io sono qui, piena di paure. I miei compagni sono adorabili e bravissimi. Il debutto nella regia teatrale del commediografo Patroni Griffi credo che sarà una felice sorpresa per molti. Sta lavorando sul testo con un acume e un amore commoventi e inusitati. Ma io ho paura lo stesso. La notte mi sveglio di soprassalto e mi sorprendo a meditare fughe chissà dove!... Ma so che non fuggirò. Starò qui, non solo a difendere una commedia che amo, ma a riscattare una ingiustizia. Starò qui a rivivere, sera per sera, una memoria dolorosa e bella, la memoria di un uomo straordinario e di un grande scrittore. La memoria di mio marito. Vitaliano Brancati.
Roma 22 gennaio 1970. Questo pezzo lo scrissi esattamente cinque anni fa. Ho ben poco da aggiungere oggi. Una cosa sola, forse. Che in un momento in cui io mi sento profondamente in crisi con il teatro, con questo mio mestiere di attrice che allora definivo “una vocazione limpidamente inalienabile” e che ora mi appare assai meno limpido e profondamente “alienato” l'unica possibilità di lavorare in modo sopportabile mi è parsa quest'anno la riproposizione al pubblico di questa mia Governante. E' questo un segno, forse, che i fatti privati, i sentimenti personali contano, alla fin fine, più di ogni altra cosa. E che finché continueremo a fare col teatro delle esercitazioni di stile, sia pure ad alto livello, saremo condannati all'insoddisfazione e alla crisi. O il teatro diventa specchio della nostra vita personale e segreta, ci rappresenta cioè a tutti i livelli, non soltanto a quelli intellettuali e ideologici, o saremo ridotti all'alienazione e alla nevrosi.
ANNA PROCLEMER