Il Piccolo Teatro della Città di Milano presenta:
Le notti dell'ira (1964)
Di Armand Salacrou
- Interpreti: Renato De Carmine, Gabriella Giacobbe, Edmonda Aldini, Aldo Giuffrè, Luciano Alberici, Armando Alzelmo, Franco Sportelli, Gianni Mantesi
- Musiche: Fiorenzo Carpi
- Scene e Costumi: Enrico Job
- Regia: Giorgio Strehler
Programma di sala (pagine 48)
- La stagione 1963/1964
- Perché un piccolo teatro?
- Teatro e resistenza (Ruggero Jacobbi)
- Armand Salacrou biografia
- A vent'anni dalla resistenza (Luigi Lunari)
- La regia di Strehler
- Il cast
- Il Piccolo Teatro dal 1947
Teatro e resistenza
Quasi a smentire tutti i postulati idealisti sulla «necessaria decantazione» delle materie storiche perché possano diventare materia di poesia, la Resistenza dei popoli europei al nazifascismo ha cominciato subito a produrre della buona letteratura. Il conflitto mondiale non era ancora terminato, che già circolavano a stampa le poesie di Eluard, di Aragon, Tzara, e quel romanzo di Vercors Le silence de la mer che fu allora, per molti, una rivelazione. A teatro, ricordo che nel 1944, quando il Nord del nostro Paese era ancora occupato dai tedeschi e dalla repubblica di Salò, a Roma il primo governo antifascista, composto dai sei partiti del C.L.N., organizzò una compagnia teatrale con grossi nomi, al Quirino, con un repertorio prevalentemente «politico». Per tale compagnia Visconti diresse La quinta colonna di Hemingway, Pandolfi La luna è tramontata di Steinbeck ed il sottoscritto La guardia al Reno di Lilian Hellmann. Tutti testi nati dalla diretta esperienza e scritti, si può dire, in mezzo all'avvenimento, senza perdere un istante. Guerra civile spagnola, occupazione nazista della Norvegia, passaggio della coscienza americana dalla neutralità all'intervento, erano i temi. E ben presto vedemmo giovani scrittori italiani impegnarsi nelle stesse tematiche: Leopoldo Trieste con La frontiera, Ettore Gaipa in diversi tentativi che circolarono molto, e destarono molto interesse, anche se non giunsero al palcoscenico. Qui vi era già un barlume di superamento della cronaca - un tentativo di giudizio morale e di formulazione stilistica. Ma ben presto la narrativa e il cinema intervennero a sgominare questi pallidi esempi drammaturgici. I primi film di Rosellini, di Zampa, di De Santis (e, concepito con particolare rigore ideologico, Il sole sorge ancora realizzato da Vergano ma frutto dell'elaborazione collettiva d'un gruppo di giovani intellettuali) crearono subito modi - e ben presto anche formule - di ripensamento estetico del fenomeno Resistenza, che dilagarono per il mondo e che si trovarono ripetute in opere americane, finlandesi, polacche e persino svizzere. Il teatro, da noi, si mosse poco. si mosse sempre meno, su questo piano. Passata la «cronaca», sopravveniva forse la cattiva coscienza. Eppure i Pratolini i Vittorini i Pavese i Calvino i Cassola i Bassani erano lì a fornire precisi esempi: era proprio da un'evocazione poetica della Resistenza che stava nascendo in Italia una nuova letteratura. Nel 1947 nasce - proprio da uomini visceralmente legati all'esperienza dell'antifascismo - il Piccolo Teatro di Milano. Le sue due prime scelte sono estremamente significative: Piccoli borghesi di Gorkij significano una ricerca delle origini del realismo moderno quale specchio dialettico della vita sociale, Le notti dell'ira di Salacrou indicano una ricerca di nuovo realismo (quello che poi il cinema chiamerà neorealismo) partendo dalla cronaca e dai temi ancora sentimentali, non dialettici, della «patria» della «libertà », della «dignità umana ». Il teatro francese doveva fornire in seguito altri due esempi diversissimi di ritratto storico del periodo resistenziale: La neige était sale di quel concretissimo scrittore che è Georges Simenon, storia puramente psicologica, sul tema dell'angoscioso sbandamento a cui porta la atmosfera bellica, senza nessun impegno ideologico; e Les morts sans sépulture di Jean-Paul Sartre, testo tra i più “filosofici" del grande saggista e novelliere, ma (almeno per me) non troppo grande drammaturgo né romanziere. I personaggi vi servono troppo da esempio, da archetipo, da finzione logica; e non è che vi manchi il «teatro », come dicono: ce n'è anche troppo, ma è vecchio, è l'applicazione di una formula tradizionale di effetti scenici, di un «mestiere» indubbio, ad una serie di idee, che, appunto per esser nuove, richiederebbero la novità dell'espressione, la fondazione di una forma. Negli stessi giorni in cui Salacrou, così “a caldo", scriveva Le notti dell'ira, uno scrittore poi impantanatosi nel “boulevard», Jean Bernard Luc, scriveva un atto unico a tre personaggi, La nuit des hommes. Anche li si trattava di condensare nel dibattito di poche e ben rilevate figure un ingorgo di sentimenti storici, il nodo che si era avviluppato nel¬le coscienze europee e poi era scoppiato nel mondo senza pietà dell'azione. In Italia, molti anni più tardi, doveva toccare a Luigi Squarzina, con la sua Romagnola, il compito di svolgere un giudizio a distanza, un primo esperimento di epos, sul tema resistenziale. Ma anche li quel che risultava meglio era proprio il dramma degli individui, il rovello etico inserito nelle maglie della psicologia; con risultati spesso vivissimi. Insomma, si ha un bel dire che Le notti dell'ira sono un testo «datato» (e chi non lo sa?) ma è pur evidente che non si è usciti, nella drammaturgia, da questa formula, quando ci si è avvicinati a questi argomenti. Solo Brecht, e qualche testo dell'Europa orientale (ma aduggiato dalle superstizioni del cosiddetto realismo socialista) sono riusciti a fare di più. E a me piace non solo la solidità del dramma di Salacrou. quel suo misurare il passo ed il polso dei personaggi con valida energia, ma anche tutto il discorso sul teatro, sull'attualità del teatro, sul rapporto teatro-cronaca e teatro-popolo, che il testo sottintende, e che del resto Salacrou ha illuminato nella sua polemica prefazione con ammirevole chiarezza e con argomentazioni che in gran parte reggono ancora oggi. Certo, metterlo in scena, è mettere in scena se stessi, noi stessi, a distanza di anni. Con le rughe del lavoro compiuto, e con le giuste lacrime virili su ciò che non si è fatto. Eravamo ingenui allora o siamo imborghesiti oggi? Forse la verità non è né l'una né l'altra, ed il suo volto sta nascosto come sempre nelle pieghe fatali della Storia. Ma spetta a noi scoprirlo, e non c'è altro modo di farlo che lavorare, fare del teatro, riproporre a noi stessi, continuamente, il senso di ciò che fummo e di ciò che dobbiamo essere.
RUGGERO JACOBBI