Caro Eduardo
Caro, Carissimo Eduardo, che cosa posso dirti. Posso dirti, per esempio, che cosa ha significato, per quelli della nostra generazione, che cosa avete significato Tu, Titina (l'adorabile Titina) e Peppino, quando eravamo, come si dice, ancora giovani. Era un misto di popolaresco e di verace, di credibilità naturalistica e di sublimazione etica, non veristica. Era una ventata, nella fitta ragnatela di quegli anni, venuta d'improvviso a portare un segno di lealtà nei confronti della storia, un segno di sicurezza nei confronti dell'individuo, un segno di "positività" (quanto risulta "datata" questa parola) nei confronti della società, per certi versi disperata ma non ancora nello sfacelo. Posso dirti, per esempio, che il tuo Trattato sulla famiglia, come l'ha chiamato qualcuno, in lunghi, diversi ed eguali capitoli, mi ha fatto esplorare dimensioni "segrete" che ben conoscevo, tra il dolore sovrumano e l'humour sapiente, tra l'allegrezza (figurati, io triestino) e la spietata legge dell'amaro quotidiano. Posso dirti, per esempio, che Ha da passà 'a nuttata per il teatro italiano non è solo una "battuta" teatrale, ma quasi una lezione di vita, una mesta contemplazione del passato e insieme uno sguardo verso un Domani che sia, speriamo, molto vicino all'alba piuttosto che agli anni a venire. Perché, lo sai bene, Eduardo, veniamo da lontano, ma andiamo lontano. Posso dirti, per esempio, che il tuo 'O vico stretto non è soltanto una poesia, ma anche e soprattutto una Weltanschaung, là dove dici - e quanto giustamente! - che il cavallo corre molto meglio quando la strada è diritta, libera, vuota, ma nel "vico stretto", appunto, "c'è più sfizio". Purché dal "vico stretto" ne usciamo, beninteso. Posso dirti, per esempio, che questa tua poesia (quale poeta, poi, oltre che teatrante, lo diranno uomini più indottrinati di me) è a suo modo assai vicina alle poesie che un altro grande uomo di teatro, così diverso da Te, scrisse a Svendborg, Bertolt Brecht. Eppure, Tu sei italianissimo, napoletanissimo e contemporaneamente "internazionale". Perché il tuo ridere e il tuo piangere, caro Eduardo, non sono tuoi, sono nostri. Sono il ridere e il piangere della Povera gent di Bertolazzi, sono i sentimenti umani degli uomini che ancora hanno un cuore, una volontà di fare, un rifiuto istintivo, alla sopraffazione, al sopruso, all'ingiustizia. Posso dirti, per esempio, che con il tuo palcoscenico, con la tua arte d'attore, con il tuo magistero umano, con la tua "lezione" sempre eguale e sempre diversa, ci hai insegnato a decifrare che la vita è così, e hai scritto una pagina meravigliosamente umana nella storia del teatro.
GIORGIO STREHLER