Varietà
ll governo Salandra non dette la colpa della disfatta di Caporetto durante la prima guerra mondiale all'inferiorità del nostro esercito né alle deficienze degli alti comandi, né all'errore compiuto in senso opposto da Cadorna, intransigente e dogmatico sostenitore dell'attacco frontale, né alla demoralizzazione dei combattenti, no, il governo Salandra non imputò Caporetto a queste o ad altre analoghe ragioni, ma ai socialisti e al teatro di varieta. Questo ha scritto una volta, con la consueta, sapida lucidita Giulio Trevisani, il futuro creatore del calendario del popolo, che, durante il fascismo, campò facendo un poco da negro, come Guido Di Napoli a Michele Galdieri, re di quella trasformazione del teatro di varieta che è stata la rivista musicale. I socialisti e il teatro di varietà come capri espiatori. I socialisti, perché contrari allo spreco di vite che è sempre una guerra, anche la guerra più patriottica, e il teatro di varieta, perché comunque sia, I'umorismo, il giocar con !e parole e le situazioni, il suggerire lo scherno o I'allegria come antidoto alle situazioni peggiori, come surrogato alle speranze cadute, come modo caparbio e a volte elegante di sottrarsi al pessimismo, di risalir la china e di godere la quotidianità, son sempre cose malviste dalla retorica dell'assassinio per forza maggiore. Non a caso, il teatro di varietà, che veniva dal cafèchantant, ribattezzato qui da noi con ironica pomposita caffè-concerto, giusto per far inorridire i conservatori musicali, ma dagli inglesi ribattezzato addirittura musichall, sala di musica con esclusione del nome in ditta del caffè, durante la prima guerra mondiale prosperò tanto presso le popolazioni lasciate (relativamente) tranquille dal conflitto, che il governo italiano nell'ora più buia, sino ad allora, della nazione impose una forte tassa punitiva e moralistica sugli spettacoli. Non a caso, il teatro di varietà come avanspettacolo e rivista musicale durante la seconda guerra mondiale continuò a prosperar tanto anche presso popolazioni non più lasciate relativamente tranquille dal conflitto, ma colpite nelle loro case nelle citta pure lontane dal fronte, e addirittura si perpetuò come un febbrile richiamo a un'altra possibile esistenza, quando arrivò davvero l'ora più buia della nazione, quella della guerra civile, e I'ltalia fu spaccata in due tra ltalia dominata dai vecchi alleati diventati oppressori e ltalia dominata dai vecchi nemici diventati liberatori, ma sempre occupanti gli uni e gli altri. Ci fu un intenso teatro di varietà italiano di qua e di la dalla linea gotica. Anche le disfatte della seconda guerra mondiale sono imputabili ai socialisti e al teatro di varietà? Neppure Mussolini si sentì di dirlo, quando in Storia di un anno rievocò a puntate per il Corriere della sera il tradimento da lui subito il 25 luglio 1943. Le coincidenze di date vanno sempre interpretate senza credulità, ma con affetto. ll 25 luglio 1943 alle 15 il comico Cecchelin si trovava in questura per sentirsi ripetere la sospensione delle recite e la vigilanza speciale per tre anni. Tre anni che sarebbero durati poche ore, perché lui si presentava in questura, Mussolini si presentava a villa Savoia al re che lo faceva impacchettare dai carabinieri e lo proclamava decaduto, scaduto, fuori corso. Cecchelin in trent'anni di carriera aveva frequentato le varie questure non meno che i vari palcoscenici della penisola, collezionando ottantasei diffide, tre arresti, due processi, tre sospensioni. Date da rivisitare senza credulità ma con affetto. E con la precisa consapevolezza che sarebbe ottuso, gretto e controproducente limitare una ripresa di contatto con il favoloso mondo del teatro di varietà a una verifica del dissenso o del consenso politico con un regime o con un altro. ll teatro di varietà è più vitale di ogni irreggimentazione. Le sue immedesimazioni e le sue contrapposizioni alla realtà in cui vive, anche quando questa è un'irrealtà, possono essere opportunistiche, ma non sono mai ideologiche. Ogni censura contro il teatro di varietà rischia di ricadere sullo stesso censore come prova questa appassionata protesta inviata a Mussolini nel 1935 dal censore teatrale Leopoldo Zurlo in occasione di una campagna giornalistica contro I'immoralita delle riviste: "Non disprezziamo la rivista: la rivista è un genere teatrale precisamente come la tragedia, la commedia, il melodramma, ecc. I suoi antenati sono illustri: Aristofane che si beffava di Socrate, di Euripide e di tutti i personaggi più grandi del suo tempo, non era a suo modo un autore di riviste? Molière nell'lmprontu de Versailles e nella Critique de l'Ecole des femmes che cosa ha fatto se non una specie di rivista? Pantagruel, Don Chisciotte, Gil Blas, Candide non sono forse delle riviste-libro? Ora di che genere si compone la rivista? Di tutti i generi di teatro dal vaudeville all'opera buffa, dalla commedia satirica al dramma, passando per la pantomima, le canzoni, il balletto, la féerie. E su che poggia la rivista? Non c'è da esitare: sulla satira e I'oscenita che sono da secoli le più sicure fonti del riso. Che fa la censura di fronte alla satira della rivista? Sta in guardia atfinché rimanga nei limiti della scalfittura superficiale, della punzecchiatura solleticante. Non può sopprimerla però..." E' abbastanza singolare che proprio per Ia penna di un censore teatrale, dell'uomo che più ebbe a combattere con l'impertinenza, l'ambiguità, il doppio senso continuo di Galdieri, sia venuta Ia più chiara rivendicazione del diritto di esistere del teatro di varietà. Personalmente avevo avuto un'educazione assolutamente di varietà, perché mio padre aveva ripreso da suo padre l'abitudine di passare ogni sera al varietà e gentilmente aveva pensato di coinvolgere il figlio da usar forse come alibi contro le intemperanze materne, e non essendomi perso nulla del godibile in oltre mezzo secolo come spettatore, dal declinare della voce in Pasquariello a un filo delicato di malinconia al debuttare di Totò sulle orme di Gustavo De Marco comicozumpo, dai primi imbambolamenti di Macario al crepuscolo negli ultimi sussulti dell'avanspettacolo di Fanfulla, figlio della grande Diavolina, dalle estreme scomparse di Fregoli alla prime ricomparse della satira al nord della linea gotica con la discussa rivista di Garinei e Giovannini Soffia so... che, nel passaggio dal n.1 al n.2, si era perduta per strada il furore di Anna Magnani, ma rivelava gia il talento di Alberto Sordi, a un certo punto avevo persino pensato a scrivere un Poesla e varietà parafrasando il titolo goethiano di Poesla e verità. Ormai, comunque, ci son gia tanti libri sul varietà e immediati dintorni da Guida alla rivista e all'operetta di Dino Falconi e Angelo Frattini (Accademia, 1953) a di Rita Cirio e Pietro Favari (Bompiani, 1974) a Follie del varietà di Stefano De Matteis, Martina Lombardi e Marilea Somarè (Feltrinelli 1980), per non parlar delle monografie o delle antologie come, a esempio, il Raffaele Viviani di Giulio Trevisani (Cappelli, 1961) o il Quisquiglie e pinzillacchere, il teatro di Totò 1931-1946 a cura di Goffredo Fofi (Savelli, 1980). A ogni modo, ormai, il mio appetito di spettatore prevale su qualsiasi altro desiderio. Ed eccomi a collaborare, ma soltanto come spettatore d'oggi che si ricorda come spettatore di ieri, a questa impresa audace e tenera di Maurizio Scaparro che dal pozzo del passato scavato, ricostruito, supposto nella rinconsiderazione filologica dei testi, enuclea momenti di validità assoluta per affidarli all'interpretazione di attori d'oggi e magari di domani. Due testimoni di allora che hanno fatto a tempo a vivere un poco dell'epopea Marisa Merlini e Galeazzo Benti, e poi come primo attore il cantante e protagonista dello spettacolo Massimo Ranieri, come attrazione mirabolante il grande fantasista Arturo Brachetti che si è reinventato Fregoli, per conto suo, e ballerine e ballerini di fresca età, coinvolti nell'avventura del divertimento per divertire, per testimoniare che la vita può conoscere cadute e ricadute, ma non si arrende, cocciutamente e spavaldamente riprende a inventarsi motivi di allegria e di spettacolarità. La scelta maliziosa delle parole ironiche perché polisense le accelerazioni apparentemente capricciose, ma irresistibili, gli stessi languori di sfinimento intervallati come a consentire un nuovo accumulo di energie, e i ritorni alla delirante velocita che sfida quella delle vecchie comiche cinematografiche alla presa con le deficienze della retina, il contrario esatto della comicità sfilacciata della televisione, e, anzi, la riscoperta e la riaffermazione della suprema eleganza della professionalità, del rispetto quasi religioso dei tempi, della vocazione a sconfiggere qualsiasi banalità e grossolanità quotidiane, la celebrazione della bellezza, della forza del corpo umano, lo stesso addensarsi nella carne di chi vive il rito in palcoscenico del fuoco della frenesia come della cenere dello struggimento, il puntuale riverificarsi della rinascita della fenice della comicità, sono lo scopo, la giustificazione, il risultato di un libero incontro tra due sensibilità, due epoche, due modi di fare il teatro.
ORESTE DEL BUONO