Teatro La Fenice di Venezia presenta:
Andrea Chénier (1961)
Dramma di ambiente storico in quattro atti di Luigi Illica - Musica di Umberto Giordano
- Interpreti principali: Franco Corelli (Andrea) Antonietta Stella (Maddalena di Coigny) Ettore Bastianini (Carlo) Clara Betner (Contessa di Coigny) Maria Puppo (Madelon) Mirella Fiorentini (Mulatta Bersi) Giovanni Antonini (Focquier)
- Maestro Concertatore: Oliviero De Fabritiis
- Regia: Sandro Bolchi
- Maestro del coro: Sante Zanon
- Coreografie: Mariella Turitto
- Allestimento scenico: Lorenzo Ghiglia
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1.Corelli 2.Stella 3.Bastianini 4.De Fabritiis 5.Bolchi 6.Giordano
Programma di sala (pagine 44)
- Prima rappresentazione 18 giugno 1961
- Andrea Chénier (Fernando Ludovico Lunghi)
- Argomento
- Interpreti
- Bozzetti delle scene - fotografie
Andrea Chénier
Se c'è un'opera che appartiene alla sua epoca, questa è Andrea Chénier. Opera verista senza dubbio, di quel verismo che nasceva dalla narrazione di una vicenda più cronistica che storica e cronaca essa stessa di un fatto sia pure storico ma colto nei suoi aspetti più correnti di vita vissuta: opera di un'epoca in cui un tal verismo era quasi un modo d'arte se non di vita e la rivoluzione francese un tema tornato di moda e riproposto in termini melodrammatici e dominatore quasi del teatro anche di prosa: anzi sopra tutto di prosa. Sullo sfondo dunque della Rivoluzione Francese i personaggi si muovono in un tumulto di sentimenti di passioni di eroismi di viltà, a vene scoperte a gole spiegate. Sospinti dalla folla urlante e imbestiata dal Terrore, essi non hanno tempo né modo di raccogliersi di appartarsi di confessarsi in silenzio e solitudine: tutto urla a loro dintorno; per intendersi debbono urlare anch'essi e dirsi tutto nel più breve tempo possibile, sulle piazze tra la folla prima che il gelido lampo della ghigliottina li fermi per sempre. Nessuna meraviglia dunque se i personaggi di Giordano cantano con tanto generoso impeto, con tanta bruciante vocalità. Meraviglia sarebbe se non lo facessero se non prodigassero acuti e declamati in un alternarsi di ribellioni di abbandoni di odio di amore: se questo amore, al cospetto della morte non gridasse a gran voce la sua fiammeggiante e indistruttibile realtà: in questo senso i “sì naturali” di Maddalena e di Chénier, nel finale, sono la estrema sfida alla mannaja che può sì troncare le loro vite, non il loro amore. Proprio per questo impeto, per questa incontenibile generosità vocale, per questo modo di cantare a pieni polmoni, anche questa opera ha avuto la sua brava accusa di retorica e di enfasi: e certo tutto a prima audizione può farlo pensare; e a guardare bene una certa dose dell'una e dell'altra c'è pure. Ma si avverte meno e unisce per divenire anzi il solo linguaggio adatto a ciò che si vuole esprimere: perché dietro c'è il vuoto; non c'è personaggio a reazioni sproporzionate alla sua statura; c'è la rivoluzione francese. Troppe volte personaggi inconsistenti o che portavano dentro uno scontento che si voleva far passare per dramma narrarono, in tema ampolloso, le loro piccole disavventure cantando a squarciagola. Dietro loro, dietro quel loro gran gridare c'era nulla o quasi: di qui l'enfasi e la retorica, principale accusa alla scuola verista. Ma “Andrea Chénier” fa caso a se ed ha una sua piena giustificazione a quel suo alzar la voce. E lo accettiamo così anche perché le sue non sono parole gonfie d'aria; voglio dire parole musicali. C'è una ispirazione una invenzione una melodia che nasce da una intensa emozione; c'è bisogno quasi di liberazione che è quanto dire di creazione. Si è detto che Andrea Chénier è opera che appartiene al suo tempo: ma non soltanto al suo tempo; proprio perché il suo canto è nato da una commozione che non appartiene ad un tempo ma che è di sempre. C'è insomma la sigla di un artista, di un musicista che aveva una sua precisa personalità: tanto è vero che l'accento dei personaggi delle varie opere di Giordano è quello esatto di quel dato personaggio e la melodia ha per ciascuno un suo segno di distinzione. Basti per tutti mettere a fronte l’ “improvviso” dello ”Chénier” e il “Vedi io piango” della “Fedora”; una pagina di “Siberia” ed una del “Re”. In Chénier, in questo poeta che passa come una fiaccola di amore e di poesia tra le fiamme della rivoluzione facendole impallidire, non avremmo potuto né saputo cercare un canto che non fosse epico e dunque sonante. Ciò non significa che in questa opera domini l'accento spasmodico. In più di un momento il musicista sa raccogliersi ed esprimere momenti di sospensione quasi magici che ammantano di mistero quegli impeti: li prepara quasi come ad esempio nell'attesa di Chénier al secondo atto; ed ancora nello stesso atto in tutta la scena di “Mathie” in cui sull' originalissimo ed insistente “Pedale” dei contrabbassi il disegno degli strumentini crea un arabesco crudele e minaccioso. E a questo proposito diremo anche che lo strumentale di questa opera, se pure si attiene ai colori accesi e alle forti sonorità, ha una sua particolare pregevolezza per la scelta dei timbri per l'equilibrio degli impasti per la ricerca talora felice di un agghiacciante effetto in funzione descrittiva. Valga per tutti quel colpo finale di tam-tam che nella sua esasperazione agghiacciante riproduce il cadere della mannaja. Certo i tempi sono cambiati ed i gusti anche e direi le esigenze. Ma dove al teatro (e in Chénier di teatro ce n'è) si unisce la sincerità del linguaggio inteso come espressione sia pure transeunte di un tema eterno qual'è amore e morte, allora gusti ed esigenze possono avere un loro imperativo sull'avvenire ma non sul passato: almeno per quelle espressioni del passato che sono assurte a opera d'arte. E che “Chénier” lo sia lo dice chiaramente la sua schietta vitalità. Sessantacinque anni sono una bella età.
FERNANDO LUDOVICO LUNGHI