Arena di Verona presenta:
Il trovatore (1959)
Dramma lirico in quattro atti di Salvatore Cammarano - Musica di Giuseppe Verdi
- Interpreti principali: Giulietta Simionato (Azucena) Franco Corelli (Manrico) Gabriella Tucci (Leonora) Ettore Bastianini Conte di Luna) Andrea Mongelli (Ferrando) - Primi ballerini: Giuliana Barabaschi - Paolo Bortoluzzi - Riccardo Duse
- Maestro Concertatore: Oliviero De Fabritiis
- Regia: Carlo Piccinato
- Maestro del coro: Giulio Bertola
- Coreografie: Vanda Dell'Ara Sciaccaluga
- Scene e costumi: Orlando Di Collalto
Link Wikipedia
- 1. Simionato 2. Corelli 3. Tucci 4. Bastianini 5. De Fabritiis 6. Piccinato 7. Bertola
Programma di sala (pagine 84)
- Romanticismo e concisione (Carlo Bologna)
- Il libretto (Carlo Bellotti)
- Personaggi e interpreti
- La 37° stagione lirica: La forza del destino - Il trovatore - Faust
- Fotografie
Romanticismo e concisione
Il trovatore è l'opera più popolare delle tre più importanti appartenenti al secondo periodo. Fra Rigoletto e Traviata, Il trovatore ha un suo posto di preminenza, diremmo di diritto: l'ascoltatore viene, in un certo senso, aggredito da questa musica, che non bada a sottigliezze, che va diritta allo scopo, che ha nella concisione musicale la sua massima virtù, che dimostra una sempre vitale e straordinaria potenza di effetti. Se Rigoletto è l'opera più completa, se Traviata porta l'ascoltatore a contatto con i temi dell'amore e della morte, Il trovatore è veramente l’opera degli impeti, della musica densa di stupende melodie, potenti e originali, di una linea tale da fissarsi per sempre nella memoria; l'opera che dagli effetti come tali passa gradatamente a suscitare vivissimi i sentimenti di calda umanità, incentrata nel personaggio fondamentale -dal punto di vista della musica - di Azucena. Dal 19 gennaio 1853 quest'opera - tratta da una tragedia spagnola di Gutierrez – corre i teatri del mondo, dimostrazione di un grande momento di Verdi, un segno della sua progressiva conquista e, nello stesso tempo, un segno di quanto questa conquista sia stata difficile, ardua e lenta. Scritta dopo Rigoletto, Il trovatore sembra, all'esame della produzione verdiana, più vicino ad opere come Ernani che alla vicenda di Hugo. Qui il romanticismo, l'ultraromanticismo verdiano, esplode nella forma più spontanea, quasi senza freni. Miracoloso è ciò che Verdi è riuscito a trarre da un libretto spaventoso, un formidabile fior da fiore di intrecci assurdi, di impossibili situazioni, scritti in una lingua che ha parentela assai alla lontana con l'italiano. Pure Verdi ha colto i momenti essenziali delle situazioni: una donna, zingara e quasi strega, che si vendica ed ama; un figlio che è trovatore e capo di eserciti e che lascia sua madre (almeno così crede che sia) vivere da zingara per sposare una principessa o una nobildonna; una donna (Leonora) che non si sa chi sia, un conte di cui si ignora il nome; situazioni assolutamente atroci nel senso crudele della parola, come è nella sostanza del racconto di Azucena. Tutto questo avrebbe spaventato qualsiasi musicista che non avesse avuto il senso del teatro che possedeva Verdi. Così si è avuto il personaggio di Azucena, assolutamente fra i più belli della storia del teatro lirico di tutti i tempi Pare che Verdi, con quest'opera. sia tornato indietro per certi aspetti e per altri abbia fatto un balzo in avanti: si passa da momenti di scarso valore musicale e teatrale (il conte di Luna che canta “no no non può nemmeno un Dio rapirti a me rapirti a me” sotto il dolce canto delle clarisse) a momenti eccezionali come “stride la vampa”. Ma l'insieme ci dà una opera in ogni caso sempre accettabile e cara, in cui le gemme sono molto più che i fili di paglia fradicia, in cui il compositore si porta, alla fine, a contatto (come accade, ma su altro piano, in Traviata) con la morte, elemento di tragedia, folto di significati morali, denso di indicazioni religiose. E' in questi momenti che il genio verdiano trova il filone più perfetto, più metafisica della sua ispirazione: metafisica che non perde il contatto con la terra, con lo sguardo volto agli inconoscibili orizzonti che il senso della morte apre a chi lo medita e lo sente con lo spirito. Tutto l'ultimo atto di Trovatore è in quest'aria, sia nelle scene fuori della prigione (chi può dimenticare “D'amor sull'ali rosee…”) sia in quelle nella prigione (e “Ai nostri monti ritorneremo...”?). Sopra il suicidio eroico di Leonora, sopra la condanna a morte di Manrico, sopra la vendetta terribile e disumana di Azucena è la forza della musica di Verdi, ancora una volta la sua inimitabile concisione, il fare di una azione teatralmente quasi inaccettabile un fatto altamente umano, trasfigurarlo in note splendenti. Si pensi che, sempre nel IV atto, scena seconda, dal momento in cui il suo ultimo sospiro viene sopraffatto dal fortissimo accordo di mi bemolle minore, fino al concludersi della tragedia, passano sette righe di musica. In queste sette righe il conte di Luna manda Manrico al carnefice, costringe Azucena ad assistere alla sua esecuzione e quando la scure è calata sul collo del trovatore si ode il grido della zingara che rivela al conte come Manrico sia suo fratello, ed esplode nella gioia della vendetta raggiunta. Sbalorditivo: sette righe; quarantaquattro battute; la morte è scesa fra gli uomini due volte; è esplosa una vendetta, si è scatenata una gioia satanica, è nato un dolore. Chi legge ascolti con questo pensiero e dica se Verdi poteva essere più conciso e, nello stesso tempo, raggiungere una più alta drammaticità. Da cento sei anni quest'opera cammina per i teatri del mondo: una vicenda assurda, intricata, impossibile, una lingua indecorosa, tutto riscattato da una potente musica che indica un musicista in continuo progresso, pronto alle sorprese. Dopo pochi mesi avremo Traviata e poi I vespri, Un ballo in maschera e giù giù fino al Don Carlo, all'Otello, al Falstaff. Dal 1853 al 1901, anno della morte di Verdi, corre tutta una lunga stagione sempre più verde e sempre più fiorita. in una vicenda che ha del miracoloso e che trova riscontro solo nella storia di pochissimi altri geni. Un cammino verso la perfezione.
CARLO BOLOGNA