Teatro dell'Opera di Roma presenta:
La Péricole (1985)
Opera buffa in 3 atti di Henry Meilhac e Ludovic Halévy. Versione ritmica italiana di Gioacchino Lanza Tommasi. Musica di Jacques Offenbach
- Interpreti principali: Elena Zilio (Péricole),Claudio Desderi (Vicere' del Perù), Ugo Benelli (Cantastorie), Angelo Marchiandi (Il Conte Miguel) Guido Mazzini (Don Pedro Governatore di Lima)
- Maestro Concertatore: Pierluigi Urbini
- Regia: Jèrome Savary
Maestro del coro: Ine Meisters - Coreografie: Lorca Massine
- Scene e costumi: Michel Lebois - Michel Dussarat
- Allestimento: Grand Théatre de Genève
Programma di sala (pagine 66)
La trama
La smorfia di Offenbach (di LORENZO TOZZI)
La parodia è realismo (di DAVID RISSIN)
Ci somigliamo io e Offenbach (di JEROME SAVARY)
Mai le spalle al pubblico (di GIANFRANCO CAPITTA)
Vista in Italia (di GIORGIO GUALERZI)
Antologia
La vita e le opere di Offenbach
Le edizioni in dischi (di CARLO MARINELLI)
La trama in inglese, francese, tedesco
Foto delle prove (di DUFOTO e EMILIO DE CESARI)
Cast
Nell'allestimento di questa “Périchole” mi sono attenuto strettamente al libretto di Meilhac e Halévy ai quali mi lega un sentimento fatto di tenerezza: perché sono due pelandroni e perché mi ricordano Cnarles Trenet. Quei due non rifiutavano mai una commessa e così erano sempre in arretrato di due o tre libretti, un po' come Balzac il quale accettava anticipi che era poi costretto ad onorare. E noto inoltre che certi libretti li hanno addirittura terminati seduti in bilico ad un tavolino del Cafè de la Paix stretti fra due o tre belle creature. Come Trenet hanno poi un certo gusto per l'approssimativo uno spiccato senso della rima strampalata ché non impediva loro però di comporre anche testi stupendi ai quali hanno lavorato seriamente: ad esempio l'aria della lettera nella “Périchole”, per l'appunto. Ma ecco che accanto a questi testi troviamo «Il girotondo dei mariti ritrosi» o «Felicità, felicità ecceterà, ecceterà...».
Sono cose del genere che ti fanno capire che certi momenti sono stati tirati via. Sappiamo peraltro che spesso Offenbach scriveva la musica prima ancora delle parole e che mandava a Meilhac e Halévy i cosiddetti "mostri", ossia partiture già pronte alle quali Meilhac e Halévy avevano solo da aggiungere le parole. E Offenbach corredava questi "mostri" di "testi", ossia di annotazioni del tipo «Rataplan, zinbunbam, felicità, felicità, ecc. ecc.» pensando che Meilhac e Halévy avrebbero provveduto per quanto di loro spettanza. E successo invece che, i due pelandroni hanno mantenuto gli «ecc. ecc.» che così sono diventati "parole"!... Così anche nelle strofe: «Crescerà, perché spagnolo egli è, gnagnagnagnagna...» è il "mostro" di Offenbach che viene ripresentato pari pari. Nelle creazioni di Meilhac e Halévy vi sono poi parecchie battute di certo poco fini, ma che tutte hanno la qualità di essere leggere, di essere automatiche: anzi lo scrivere di Meilhac e Halévy mi fa pensare per certi versi alla scrittura automatica dei surrealisti. Insomma, amo questo libretto e avevo voglia di far condividere questo amore al pubblico.
Bisognava perciò mettere in scena questa storia in modo che fosse viva e che allo spettatore risultasse accattivante. Cioè a dire bisognava «mettere in scena», nel senso stretto del termine. Oggigiorno si caricano le scene con colonne immense e scenografie imponenti e possenti che ingombrano i palcoscenici. E il sintomo, a mio modo di vedere, di uno scadimento: si è persa la fiducia sia nella musica sia nell'attore. Io credo che più la colonna è imponente, più l'attore è sminuito. Anch'io, certo, ingombro i palcoscenici, ma lo faccio con il movimento. Perché mi piace ricorrere a figure umane e perché i miei palcoscenici sono sempre "guarniti”. D'altronde in un' epoca come la nostra in cui ci raccomandano di assumere gente, di difendere i posti di lavoro, io sono perfettamente in regola poiché in questi ultimi tre anni non ho mai presentato uno spettacolo che non comportasse la presenza di almeno 40 persone sul palcoscenico. Faccio opera sociale, dunque, lotto anch'io contro la disoccupazione partendo dal principio che è preferibile che i soldi vadano a lavoratori piuttosto che alla costruzione di colonne che verranno bruciate dopo dieci rappresentazioni. D'altro canto ritengo che uno spettacolo debba poter andar in giro senza aver bisogno di 30 autotreni per il trasporto delle scenografie. Si ha un bel dire che gli spettacoli vengono filmati, registrati per la televisione: sappiamo tutti benissimo che se manca il contatto fisico con uno spettacolo, il fluido non scorre interamente. Questa “Périchole” andata in scena a Ginevra prima e poi a Nancy e Montpellier viene ora rappresentata a Roma sempre con le stesse scene e gli stessi costumi. In ciò sta un po' la mia fortuna: le mie produzioni non sono «leccate», sono un po' grezze, ma hanno il pregio della spontaneità e dell' energia. Cerco di fare in modo che in scena si sviluppi energia. Con il ricorso ai cori, tanto per fare un esempio, che mi piace far muovere, ballare, giocare, gigionare: sono in continuo movimento, tanto da suscitare a volte la gelosia dei solisti!
Per quanto riguarda la "concezione" dalla quale mi son fatto guidare, è anch' essa espressione della mia fedeltà, una fedeltà che ovviamente non è rimasta intrappolata nell'Ottocento, che non è una fedeltà ossequiente, ma che è fedeltà al racconto. Ecco dunque che le scene e i costumi intendono mettere in luce la differenza fra il popolo peruviano - che appare come nelle fotografie del Club Méditerranée, ossia pittoresco e sottosviluppato, con le scontatissime bombette - e gli aspetti "incredibili" che costituiscono la caratteristica dei cortigiani e del Viceré. Siamo dunque in presenza di una tematica sociale e, mi sia consentito, politica: questa presenza permanente del popolo nella rappresentazione. La “Périchole” si apre del resto con una grande scena politica in cui si vede il popolo al quale è stato ordinato di divertirsi per festeggiare il compleanno del Viceré.
In sostanza si possono riconoscere tre schieramenti: quello del popolo che, con senso dell’ironia, si diverte a seguire le marachelle di quella specie di marionetta del Vice-re del quale del resto si fa beffe; quello della Corte, costituito da una serie di personaggi che sembrano tanti burattini o ometti meccanici con in testa improbabili parrucche degne di un carnevale di Rio; e, infine, lo schieramento degli ambulanti, dei saltimbanchi, del quale fanno parte Piquillo e la Périchole, anche se loro si sentono superiori, i quali si lamentano che la folla preferisca seguire i cani ammaestrati piuttosto che ascoltare la loro canzone. E qui troviamo peraltro accennato il problema dell'arte, l'arte vera, che investe lo stesso Offenbach il. quale si risente di non essere considerato un compositore, "serio".
Nella “Périchole” troviamo dunque anzitutto una storia politico-sociale costituita da questa satira del Viceré, che potrebbe essere Luigi-Filippo, ossia una specie di bambolotto che dovrebbe rappresentare il Potere ma che in effetti occupa quel posto solo perché il re ha bisogno di complici istituzionali per sottrarre la ricchezze al popolo. Del resto possiamo trovare in tutta l’opera di Offenbach una satira sociale e politica più o meno pronunciata. Vi è poi una seconda storia, abbastanza commovente anche se un tantino datata, sulle relazioni amorose fra uomo e donna, fra Piquillo e la Périchole. E se nell’allestire la “Périchole” io voglio mettere l’accento sul lato grottesco, mi sforzo anche di rispettare questa storia d’amore, semplice, forse ingenua, ma certamente tenerissima.
Ma cerco anche di mantenere la “suspense”… Sono per lo sberleffo, la parodia, per il grottesco, ma sarebbe un errore credere che ciò debba andare a scapito della “suspense” e dell’emozione. La vita di tutti i giorni non ci dimostra – peraltro – continuamente che il sublime e il grottesco vanno di pari passo? Nella “Périchole” voglio che vi sia nel contempo questa “suspense” e questa emozione; alle situazioni sottolineate dal riso o da questo preannunciate si devono alternare momenti in cui si vorrebbe quasi intervenire: questa “Pèrichole” in effetti, voglio metterla in scena come fosse uno spettacolo per bambini.
Tutto sommato, con questo lavoro posso ancora una volta constatare, e lo dico in tutta modestia ovviamente, che ci somigliamo moltissimo, Offenbach ed io. Perché lui non è stato solo un compositore ma anche un capocomico ed un uomo d’affari, un costruttore ed un direttore teatrale. Era un artigiano dello spettacolo: rimaneva fra le quinte, partecipava all’elaborazione degli spettacoli, alle prove, alle emozioni della compagnia; era un uomo di spettacolo completo. In questo senso mi sento molto vicino a lui. Inoltre, tanto lui quanto io siamo considerati soltanto gente che fa divertire e che dunque non è mai da prendere sul serio. Ma così va il mondo: i comici non sono mai presi sul serio oppure se lo sono, vuol dire che non fanno più ridere nessuno… o che sono morti…
(a cura di Alain Duault)