Il Piccolo Teatro della Città di Milano presenta:
L'Annaspo (1963)
Di Raffaele Orlando
- Interpreti principali: Franco Graziosi, Franco Sportelli, Edda Albertini, Silvano Piccardi, Nicola De Buono, Raffaele Giangrande, Nico Pepe, Remo Varisco
- Musiche: Fiorenzo Carpi
- Scene: Luciano Damiani
- Costumi: Enrico Job
- Regia: Virginio Puecher
Programma di sala (pagine 48)
- Perché un Piccolo Teatro?
- La stagione 1963/1964
- Ragioni de l'Annaspo
- Raffele Orlando
- Coscienza e stile di Orlando (Ruggero Jacobbi)
- Una passione profana (Virginio Puecher)
- Primi appunti per l'Annaspo
- Il cast
- Il Piccolo Teatro dal 1947
RAFFAELE ORLANDO
Raffaele Orlando è nato a Menaggio il 2 gennaio 1929. Giovanissimo ancora si laureò in estetica con G.A. Borgese, ma abbandonò ben presto l'insegnamento per iscriversi all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico e diplomarsi come regista. Allievo di Orazio Costa all' Accademia, ne divenne l'assistente; nel 1960 entrò a far parte del Piccolo Teatro di Milano, come regista assistente di Giorgio Strehler. Collaborò con Strehler all'allestimento dello “Schweyk nella seconda guerra mondiale”, del “Nost Milan”, dell' “Egoista”, dell' “Eccezione e la regola” e del “Ricordo di due lunedì”. Dopo una prima commedia Il Sintomo - scrisse l'Annaspo, una raccolta di poesie dal titolo “L'occhio dietro i capelli”, un lungo saggio sulla regia strehleriana per lo “Schweyk” di Brecht. Lasciò inoltre numerose poesie sciolte, pagine di diario, appunti per un dramma dal titolo “Discorso della pianura”. Nella primavera del 1962, durante le prove dell' “Eccezione e la regola” e del “Ricordo di due lunedì”, e mentre stava preparando la sua prima regia per “Una corda per il figlio di Abele” di A.G. Parodi, venne colto dai primi sintomi del male che doveva condurlo alla tomba. Morì il 25 giugno dello stesso anno, a Gardone Riviera.
COSCIENZA E STILE di Orlando
Sul destino terreno di Raffaele Orlando (cioè sulla vicenda dei suoi giorni, la cui logica crudele potrebbe anche essere diversa dal senso che gli affiderà la Storia), ho scritto tutto il poco che sapevo, e il molto che arguivo, nella prefazione a L'Annaspo pubblicato da Einaudi. Prefazione che ha avuto una certa fortuna critica, solamente - credo - perchè ha messo in moto una leggenda, ha rivelato una realtà a molti sconosciuta, piena d'un fascino che poi il duro testo del dramma non avrà fatto che acuire. Ora è tempo di uscire dalla leggenda, e di non parlare più dei trentatrè anni di Orlando come della benda sanguinosa di Apollinaire, della magrezza di Calogero, della pazzia di Artaud o dei vagabòndaggi di Campana. Liberati costoro dalla sospetta urgenza del mito quotidiano, ci siamo trovati a rileggerli come parole, pagine, stili. Resisterà la giovane parola di Orlando, appena pronunciata, a una simile operazione? Eppure bisogna tentarla. Eppure è questo il discorso che va fatto ormai per Orlando: per la sua dignità. Discorso sullo scrittore. Forse non si riuscirà mai a interpretare nel fondo questo abnorme frammento di persona e di linguaggio. “Eppure in me si fondono dolori”, cantava egli stesso in una non bella poesia; e, dopo uno dei suoi più stravolti paesaggi, concludeva gridando all'amata: “Eppure in te si fondono dolori”. Di questi mali va tenuto conto: ma ora, qui, nelle parole. Ho richiamato l'attenzione dei lettori de L'annaspo su tutta una matrice rilkiana e stilnovistica della lirica d'amore di Orlando; ora sia chiaro che lo svolgimento verso l'umano, il sociale, il concreto, sopravvenuto nel poeta al momento di pensare questo dramma, non è senza antecedenti nel suo lavoro di stilista astratto ed ermetico. Del resto, il suo stesso primo teatro - ed oggi accanto al Sintomo riscaviamo ben quattro drammi inediti - porta con sé, fin dall'origine bettiana, il marchio d'una preoccupazione etica che smentisce l'estetismo. Fra la condizione della forma e le attigue ragioni non formali della poesia (per ripetere due anziane formule di Oreste Macrì) ci si è agitati lungamente, negli anni dell'ermetismo fiorentino e milanese, alle soglie d'una guerra; ma Orlando l'ha rivissuto, quel dramma, nella congerie dei suoi spesso contraddittori i sentimenti, dopo quella guerra e per conto di un'altra generazione. Scoprire, con Borgese, il momento del messaggio intellettuale nell'opera d'arte; individuarlo, accanto a Costa, come momento della moralità religiosa; ritradurre questa tensione in morale collettiva e realistica secondo l'esempio di Strehler; furono tre tappe che Orlando attraversò da uomo, ma sempre tenendo l'occhio fisso, da scrittore, al cosmo della parola, al solo punto in cui il fantasma nasce e s'invera. Forse è giunto il momento di tornare a capire che la coscienza estetica riassume, nell'artista, ogni coscienza: e questo è il solo processo da fare a certe nostre velleità del '45. Orlando l'ha saputo subito, e l'ha vissuto a suo modo. Modo nevrotico, e qualche volta narcisistico. Perchè chi dice io è condannato a un proprio romanticismo, e non gli resta che esprimerlo. Ma si vedano i linguaggi. L'Orlando che scrive:
le navi a notte rasentano una baia cupa da tempo e infida e assai deserta ove dorme, tristissimo nel viso, il marinaio di tutte le città morte nel mare
ha una sua fermezza metrica di neo classico, che a ben guardare si rivela una veste, una cappa provvisoria. Ma l'Orlando che si lascia tentare da modi colloquiali di questa sorta:
Quando avete bisogno, ogni paura è importante. Così, dai tetti estrosi, temetti che i più teneri colori ghignassero un poco, scontenti di quell'uomo che appendeva i suoi sguardi al viola (e la donna più amata?) al grigio (e la donna più amata?) al rosa (e la donna più amata?): era una cosa affollata di ore immancabili, una cosa che dava bisogno fra presente e futuro, una cosa terribile adesso, mescola già una volontà drammatica (“Oh, certo vi amo. Ma non vi capisco”) alla delicatezza un po' sofisticata della melodia
Da questo ingorgo nascono le battute affannose del Sintomo, quegli incontri fra uomo e uomo sul ballatoio di una fabbrica, fra uomo e donna in un albergo di Amsterdam. E allora si vede che anche il bettismo (davvero eccessivo) di quel dramma immaturo conduce a cammini della parola ove non sarà poi tanto pazzesca l'invenzione di un linguaggio teatrale come quello de L'Annaspo. Si veda, nelle numerose note che Orlando ha lasciato, l'accanimento che presiede alla nascita dei nodi psicologici; ma si veda sempre, anche, la sua coscienza della maggiore novi¬tà a cui mirava: una “cosa detta” che, per ciò stesso, pesasse più della “cosa da dire”. E' nel suo diario, Misura d'uomo, al quarto quaderno, alla data del 18 agosto 1959, la frase: “Ispirarsi è amare in una rete di non-ispirazione”. Non siamo troppo lontani da Nietzsche: “Si è artisti a condizione di considerare come contenuto dell'opera d'arte ciò che i non artisti chiamano forma”. E ancora, con la data del 7 settembre, orgogliosamente: “Piegato in un'altra rincorsa, sbilanciato dal tempo, erto in raffiche tristi, succedaneo di una stortura, io ho scelto la casa in cui abita il mio linguaggio. E' povera, è buia, è sordida, è sparsa di pozze e di visioni. Non mi ci nutro. Resisto, già”. Che vuol dire: ho umiliato il mio narcisismo, ma non per il mito patetico dell'antiletteratura, bensi in nome di Letteratura maggiore, di un pronunciamento estremo delle cose. Da sei mesi tutti i copioni di giovanissimi autori italiani che arrivano sul mio tavolo portano i segni evidenti del linguaggio de L'Annaspo. Questo non succedeva dai tempi di Pirandello e, appunto, di Betti - i cui “clichés” sono cosi appiccicaticci (che sempre vuol dire qualcosa). Ma attenti, ragazzi, che Orlando pareva già capace di rovesciare, nel Discorso della pianura, per la seconda o terza volta, i termini del suo linguaggio. Fedele alla propria poesia, cercava tuttavia l'oggetto di essa, e ogni volta lo travolgeva nella sua nevrosi espressiva. Con l'occhio fisso alla sua verità: l'umile presenza del quotidiano, che fa pensiero e sogno nei contrasti dell'intellettuale (qui è la dialettica dei suoi versi), che fa viceversa annaspo e sgomento, cioè disperata ricerca di una coscienza impossibile, nella gente comune (e qui è la radice dei suoi drammi). E poi, non sarà davvero la sua morte a farci dimenticare la sua idea della morte:
Ma non era più nulla. Era morta. Nella polvere e nel buio, i poeti piangono ignorandosi da secoli. Silenzio! Per Mathilde. Deve essere nulla. O non potremo più vivere realmente.
Così cantava per una turista tedesca morta a Sciara. Solo chi ha l'ossessione della morte ha l'ossessione della forma. Perchè la morte è la sola vera composizione (esattezza) dell'uomo. Ma solo chi ha l'ossessione della morte ha la vera paura di vivere una vita priva di valori: e segue tremulo, commosso, da fratello, il nostro annaspare.
RUGGERO JACOBBI