Da SIPARIO Num.161 Settembre 1959:
- Dario Fo: un pagliaccio moralista "Gli arcangeli non giocano al flipper"
- Autore: Ghigo de Chiara
Un pagliaccio moralista.
Dario Fo è un rappresentante del tipico fenomeno italiano dell'attore-autore e anche per questa sua ultima commedia il traguardo finale è lo spettacolo: il momento in cui l'attore e l'autore si incontrano e si fondono.
Da qualche tempo Dario Fo sembra essersi proposto il compito di riabilitare la farsa, cioè proprio il genere teatrale maggiormente logorato dagli atteggiamenti (e dai pregiudizi, anche) di una cultura che sempre di più rifiuta il candore, il gioco gratuito, la follia innocente. Non è tuttavia disarmato l'amore che Dario Fo porta alla commedia farsesca: viceversa esso appare ragionevolmente calcolato sul margine residuo (è minimo ma esiste) che l'epoca nostra lascia all'irrazionale. Dal calcolo, inoltre, non rimane esclusa - e perché dovrebbe? - la presenza fisica (biologica, direi) del Dario Fo attore. Ricondotta cosi la questione al fenomeno tipicamente italiano, dialettale addirittura, della simbiosi d'autore-attore, insorge inevitabile la domanda circa la validità delle invenzioni letterarie del Fo, a considerarle separate dal fatto interpretativo. Certo, Dario Fo si scrive addosso, modella battute e situazioni sulle possibilità - per esempio - dei suoi occhi dilatati da stupore infantile o da brividi canaglieschi, delle sue gambe fliformi docili ad ogni esigenza clownesca, dei suoi farfugliamenti da paranoico, eccetera. Tutto vero, verissimo: ma finiremmo col restare sul terreno estremamente opinabile della tecnica del recitare se non ci sforzassimo di esplorare la componente engagée del suo modo di essere uomo di teatro. Se non possedesse una buona dose di liberissima pazzia, Fo sarebbe un predicatore, un moralista: per fortuna sua (e nostra) egli predica facendo iI pagliaccio. La farsa, insomma, rappresenta per lui uno strumento di corrosione morale: e proprio Ia farsa, aggiungiamo, che di sua natula è pretesto d'evasione, di scorribande incruente nel regno del paradosso. Ma fu forse incruento il piccolo terremoto scatenato dal Fo - insieme con Durano e Parenti - col sempre citato Dito nell'occhìo? E gli atti unici che Dario Fo ha proposto nelle recenti stagiotii sono state davvero semplici occasioni di divertimento? Oppure, insieme con le spericolate e spesso temerarie esperienze formali, Io spettatore si è visto recapitare anche un preciso invito alla iconoclastia più micidiale? Bene, tutto questo appartiene al passato, alla Preistoria - in un certo senso - dei bengala, dei razzi e delle castagnole che Dario Fo innesca in questo suo lavoro in tre atti dal titolo Gli arcangeli non giocano al flipper. Il Lungo, protagonista d'una metafisica avventura vissuta nel sogno ma carica di satirica verità, appartiene ad una banda di angelici teddy bois, sempre alla ricerca di "bidoni" da impiantare. Caduto in letargo nel corso d'una spedizione che aveva per bersaglio proprio lui, il Lungo, che gli amici considerano un sempliciotto, il nostro eroe ritrova nel sogno un acume che gli era insolito, da sveglio. E qui, nella finzione onirica, egli sembra apprendere fatti nuovi: scopre che anche una piccola prostituta da strada può avere un cuore, scopre i misteri degli ingranaggi burocratici. Di tutta la carica di ridicolo della storia, la burocrazia sopporta il peso maggiore. Esemplifichiamo con una strofe del coro dei ministeriali:
"Chi fu quel gran burocrate che ha inventato i moduli, le cedole di transito, il bollo di verifica, - le pratiche da evadere, la tassazione a carico, - lo scarico bonifico, il buono per gratifica, - il protocollo unico, la carta di certifica: - da lui nessuna lapide ricorda il di di nascita - e forse nell'anagrafe è scritto come anonimo..."
La burocrazia ha una sua logica chapliniana, per cui non ciò che esiste viene annotato sulle carte ma ciò che le carte certificano deve esistere, Cosi il Lungo, registrato nei pubblici uffici (per una lunga catena di rivolgimenti) come cane bracco, deve comportarsi da cane se desidera che giunga in porto la Pratica che lo concerne. Da cane bracco a ministro in visita ufficiale, tutto appare possibile dato che si fa questione di timbri piuttosto che di buon senso. La farsa, insomma, ritrova - dopo i non casuali riferimenti alla realtà - tutto il suo funambolismo congeniale. Il resto sarebbe inutile cercarlo sulle pagine del copione per non rischiare di perdersi il "meglio": vogliamo dire la lotta in cui il Dario Fo attore e il Dario Fo autore si contendono accanitamente in palcoscenico, palmo a palmo, i meriti dello spettacolo. È giusto pubblicare su "Sipario" una commedia che (proprio per il genere cui appartiene) non può ovviamente vantare una sufficiente autonomia letteraria? Giudichi il lettore: ma giudichi prestando alle battute del Lungo, in un facile sforzo di immaginazione, le intonazioni, le pause, gli accenti, le assurde impennate, i balbetii e le maliziose cadenze dell'attore Dario Fo.
GHIGO DE CHIARA