LA COMMEDIA DEGLI EQUIVOCI: QUASI UN CANOVACCIO
Da trentott’anni non esce sulla ruota delle estati shakespeariane veronesi. Un ritardo cospicuo, che aggiunge interesse all'occasione, nella quale questa Commedia degli equivoci porta la sua nota di franca e classica comicità accanto alla pregnanza drammatica del Riccardo II e alla complessa polivalenza del Mercante di Venezia. La commedia degli equivoci (ma si potrebbe anche dire “degli errori”, se la parola potesse essere gustata nel suo valore etimologico), appartiene agli anni giovanili di Shakespeare. Il termine “ante quem” è il 28 dicembre 1594, giorno in cui figura rappresentata al Gray's Inn, ma taluni ne anticipano la stesura al 1589 - in virtù di una possibile allusione ad un'esecuzione capitale verificatasi l'anno precedente (come se si trattasse di un evento raro a quei tempi!) - e ne fanno addirittura l'opera prima di Shakespeare. Una linea di buon compromesso adotta il 1591 o il 1592, ed è quella forse seguita dai più. Una indimostrabile opinione, sottolinea certe evidenti analogie con la traduzione di certo William Warner dei Menaechmi di Plauto, pubblicata nel 1595 (ma in circolazione certamente anche nel '94), per ribadire appunto nel 1594 la data di composizione della Commedia degli equivoci. E' questo anche il pensiero del sottoscritto, che qui cede per un attimo al gioco delle date e delle fonti, così maliardo e irresistibile per chiunque metta piede nel museo shakespeariano. Opera prima o semplicemente tra le prime, La commedia degli equivoci è comunque espressione caratteristica e tipica di un approccio alla composizione drammaturgica, quale doveva presentarsi agli occhi di un giovane di belle speranze e di deciso piglio come Shakespeare in quegli anni. Il modello è identificato con sicurezza nei Menaechmi (“piacevole e ben costrutta commedia presa dall'eccellentissimo Poeta comico Plauto”), con l'aggiunta di un primo atto suggerito forse dall'Anfitrione. Gli apporti originali per quanto concerne la struttura consistono nella romanzesca (e stucchevole) cornice che espone la vicenda del mercante Egeone (probabilmente un dovuto omaggio ai sovrani), e – più sostanziale – l’introduzione di una coppia di gemelli schiavi (Dromio di Efeso e Dromio di Siracusa) che si aggiungono ai gemelli padroni complicando e moltiplicando le occasioni di equivoco: un tratto di generosità e di esibizionismo, tra il virtuosistico e il barocco, che uno Shakespeare più maturo avrebbe forse evitato, ma che in questo momento giovanile ha il valore di un'affermazione personale. Per il resto la commedia è quel che deve essere; un'occasione per momenti comici di grande efficacia, la cui “scrittura” va completata nella realizzazione scenica, grazie agli apporti di quegli insostituibili rifinitori che sono pur sempre gli attori. Ancora va aggiunto che questi giovanili Equivoci sono scritti parte in versi e parte in prosa (ma la scelta non divide esattamente, come sarebbe lecito attendersi le scene serie o padronali da quelle comiche o servili); che vi imperversa l'uso del distico a rima baciata, così ostico al nostro orecchio e al nostro gusto, e che il testo - con le sue milleottocento righe circa - è tra i più brevi del corpus shakespeariano. Per quanto vi sia chi afferma che La commedia degli equivoci è il meglio che un autore possa trarre dalla vicenda assunta, nessuno la include ovviamente nel novero delle grandi commedie di Shakespeare, e nessuno - oso sperare - l'antepone alle sue fonti e ai suoi modelli plautini. Certamente però è una di quelle in cui l'antica, consolidata e "prototipica" classicità delle situazioni fornisce la più solida base agli interpreti; e poiché il testo non è di quelli sacri, li autorizza anche ad operare quegli interventi personali, quelle aggiunte, quelle mini-riscritture che - del resto - si praticano disinvoltamente anche in quei testi per i quali detta autorizzazione appare un po' più problematica. Soccorre qui la tesi - a mio avviso fondamentale - che Taylor avanzò negli anni '60 del nostro secolo, sostenendo che la permanente fortuna di Shakespeare era essenzialmente dovuta al fatto che le sue opere erano una sorta di blocchi di pietra da cui registi e attori potevano trarre quel che volevano, scolpendo via il di troppo, a loro insindacabile giudizio. Reinventing Shakespeare era intitolato quel saggio che dovrebbe figurare come prolegomena ad ogni futuro allestimento del Bardo: dove “reinventing” vale sì come reinventare, ma anche come ritrovare. Quasi un canovaccio, dunque, questa Commedia degli equivoci. E questo dico per giustificare non solo le libertà che si riscontrano nella traduzione, ma anche quelle che profondissimamente mi auguro Tato Russo e i suoi attori si prenderanno nel quotidiano lavoro dell'allestimento. Contribuendo con lo spirito della commedia dell'arte (nella sua versione napoletana, così straordinaria e tipica di Russo) alla messa a fuoco, al completamento, al perfezionamento di quel "meccanismo" degli equivoci che i due Antifoli e i due Dromii creano incontrandosi nelle quattro combinazioni possibili. A strapparlo insomma dalla freddezza del “laboratorio” drammaturgico per farne vita credibile sulle tavole del palcoscenico.
LUIGI LUNARI