Venetoteatro presenta:
Romeo e Giulietta (1985)
Di William Shakespeare. Traduzione di Mario Roberto Ciminaghi. Adattamento di M.R. Ciminaghi e Giancarlo Cobelli
- Interpreti principali: Massimo Belli, Susanna Fassetta, Alida Valli, Ettore Conti, Beppe Tosco, Donato Placido, Andrea Cavatorta, Marcello Cortese
- Scene e costumi: Maurizio Balò
Regia: Giancarlo Cobelli
I bozzetti dei costumi di Maurizio Balò
Veneto Teatro - Quaderno numero 9 (pagine 48)
- Sulle tracce di Shakespeare
- Quando nacque Romeo e Giulietta
- Le date di "Romeo e Giulietta"
- Romeo e Giulietta nelle novelle italiane
- Come comincia la dolorosa storia
- Il risveglio di Giulietta
- Di là dalla storia verso il mistero (M.R. Ciminaghi)
- Lontano dal realismo (Giancarlo Cobelli)
- I bozzetti dei costumi
Lontano dal realismo in cerca della realtà.
“Niente è più lontano dalla realtà, dalla vita quotidiana, del possibile” ed è appunto la credibilità che Shakespeare rifiutava; e non è certo per rispettare l'unità dell'azione se nella sua visione i tempi sono accorciati, contorti, sovrapposti, ma proprio per togliere alla vicenda ogni realistica verosimiglianza, perché non sia più “novella”, ma assuma la schiacciata prospettiva della poesia, della tragedia, dell'assioma che non si discute ma si sente”.
Ennio Flaiano
Ho voluto riprodurre questo stralcio delle mirabili intuizioni di Flaiano perché sono state il riferimento costante, direi di più la sintesi illuminante da cui si è sviluppata la mia ricerca, la mia visione dell'universo chiuso Romeo e Giulietta. Cosa dice Flaiano? Afferma che Shakespeare ha voluto escludere "ogni realistica verosimiglianza" del soggetto. E’ frase da meditare. Infatti il Prologo, ad apertura del dramma, non ipotizza ma sottolinea - con il cinismo lucido, distaccato, epico, tipico di un assioma - l'inevitabile conclusione della tragedia. Romeo e Giulietta sono già morti e il soggetto - che l'azione esemplificherà nell'assemblage della scansione drammatica - non è altro che la cronaca dettagliata di come, per quali linee e con quali mezzi, si realizza la loro morte e, per mezzo di questa simbolica eliminazione, si raggiunga e si sublimi uno dei massimi postulati estetici del Cinquecento: il Trionfo della Morte. Flaiano parla, inoltre, di "tempi accelerati, contorti, sovrapposti". E’ l’analisi più lucida e spietata che io conosca del teatro elisabettiano, una definizione - oserei dire - addirittura etica. Il prologo di Romeo e Giulietta - a somiglianza del terribile duetto formato dall'Ombra di Andrea e della Vendetta nella Tragedia Spagnola di Kyd - è un coro di ombre, una metafora dell'assenza, il precipitato onirico dei nostri sogni, degli incubi di un'umanità in disfacimento. Per raggiungere il suo massimo fine - ovvero il suo trionfo - la morte, in Romeo e Giulietta, non arretra di fronte al dato empirico rappresentato dalla pestilenza (è colpa della peste se il messaggio di Frate Lorenzo non arriva a Romeo). Ma la pestilenza, oltre ad essere un nodo atrocemente realistico, è soprattutto un dato onirico: non è un caso se tutti i personaggi di questa tragedia sognano, sono abitati da presagi inquietanti, sono squassati dall'irruzione di un universo che li riduce a pedine intercambiabili, a larve. Il Prologo stesso non li definisce come persone: sono soltanto, afferma perentorio, "tragici casi che ora è nostro intendimento riesumare". Pensiamo a Romeo che, poco prima di ricevere la falsa notizia della morte di Giulietta ha appena ricevuto - in sogno - un messaggio di segno opposto (la felice riunione all'amata) o a Mercuzio che - sotto l'influsso di Ecate - eleva l'evocazione diretta all'inconscio e al suo mistero (la favola della regina Mab) al senso e al brivido di un presagio realistico (la fine della sua misera realtà corporea, l'annuncio di una fine universale, il presentimento che la Vita non è che il riflesso della Morte). E’ allora che la straordinaria partitura comincia ad assumere un senso, a profilarsi sotto il segno dell'intuizione junghiana. Il sogno diventa la "microstruttura" portante dell'avvenimento e i personaggi, queste larve indefinite, questi frammenti di sogno inconcluso indossano davanti al pubblico un costume che è sì riferimento storico (la veste giottesca), ma è soprattutto spia della loro natura idealistica (le bende, la struttura di cui è tessuto il costume, assimilano ognuno di loro a una mummia, al materiale in via di esumazione di cui parla, appunto, il Prologo). Nella partitura scespiriana ogni personaggio enuncia per segni immediati, per improvvise illuminazioni - la sua futura incarnazione (Romeo assume in sè la valenza del futuro principe di Danimarca, Tebaldo è uno Jago, Mercuzio è un Riccardo III che esita ancora prima di precipitare nella dialettica del potere) insieme al debito inquietante della novellistica da cui proviene e che lo condiziona, consegnandolo per sempre a un destino tragico. Ed ecco allora che il procedimento tortuoso, violentemente in opposizione alla verosimiglianza di cui parla Flaiano, si configura come il massimo tentativo estetico del teatro elisabettiano: nella novellistica Romeo e Giulietta continuano atrocemente a morire, prigionieri di un'agonia che contagia uccisore e ucciso, chi si presume sia morto e chi è restato apparentemente in vita. Shakespeare accoglie questa lezione e riesce miracolosamente a non spostarla di segno (se n'era già accorto Garrick che senza alterare un verso dell'originale - lasciava in scena i protagonisti occupati continuamente a morire). Tutti sono già morti e continuano a rallentare la propria morte, vittime e carnefici, autori e succubi della propria demenza (demente la Balia che vuole restare bambina come e più di Giulietta; demente Frate Lorenzo che interroga i segreti della Natura per piegarla a una ragione che gli si rivolta tragicamente contro). E attorno, dentro e fuori di loro, si coniugano gli elementi primari del mondo: l'aria e il fuoco come la terra e la luna si alternano e provocano in quel moto rapinoso che tutto travolge il tramonto del loro effimero coniugarsi. E’ come se, sulla pagina di questo gran teatro medianico, l'umanità annunciasse la sua disfatta nell'involontaria celebrazione di un irrazionale che, al finale, ha i connotati atroci e terrificanti della peste. Una peste, ripeto, soprattutto metaforica se persino Capuleti, l'incarnazione più arida e pragmatica della volontà di potere e della necessità dell'intrigo (il matrimonio tra Paride e Giulietta) finisce per rimanerne contagiato e pronuncia l'allocuzione finale (“farò erigere una statua d'oro puro ... “) nei toni di una favola falsamente consolatoria dove il ricorso al mito non riesce a nascondere la fragile consistenza di una realtà ormai consegnata, ab aeterno, al presupposto trascendente: l'esecuzione della tragedia preordinata da un coro di ombre che esige altre ombre.
GIANCARLO COBELLI