Il Piccolo Teatro della Città di Milano presenta:
Storia di Pablo (1961)
Di Sergio Velitti da Cesare Pavese
Interpreti principali: Franco Interlenghi, Franco Sportelli, Gabriella Giacobbe, Relda Ridoni, Ottavio Fanfani, Enzo Tarascio
- Scene e Costumi: Gianni Polidori
- Regia: Virginio Pueche
Programma di sala (pagine 32)
- La stagione 1960/1961
- Il piccolo dal 1947 a oggi
- Pavese e il Compagno(G. Ferrara)
- Dal "Compagno" a "Storia di Pablo" (Sergio Velitti)
- Interpretazione di Storia di Pablo (Virginio Puecher)
Dal "Compagno" a "Storia di Pablo"
Riproporre in chiave di drammatica teatrale un'opera letteraria è cosa cui ci si va sempre più abituando. La televisione “sceneggia” a ritmo sostenuto una infinità di opere letterarie anche se nella maggior parte dei casi si tratti di una letteratura di ordine secondario. Ma vi sono esempi illustri di nobilissimi autori che hanno riproposto il tema secondo il quale qualsiasi ispirazione artistica non comporta necessariamente l'originalità. Ad esempio. Brecht, Camus ed in Italia Diego Fabbri. In generale però si tenta la riduzione del “romanzo” fine a se stesso: questo specialmente quando la materia da nuovamente trattare offre tale possibilità. Nel caso presente e cioè il passaggio dal –Compagno- a -Storia di Pablo- il procedimento è stato del tutto particolare. L'educazione Pavesiana, il sentimento. poetico del tempo proprio a Ce¬sare Pavese, alcune cadenze di ritmo e di linguaggio non potevano essere escluse e poiché proprio. Nel “Compagno” esse erano meno evidenti che in altre opere dello stesso autore si presentava il problema di dover esaminare in chiave teatrale non soltanto una storia ma quasi l'intera produzione dello scrittore a cui volevo riallacciarmi. Quindi non riduzione di un romanzo, ma esemplificazione drammatica di molti motivi e tutti diversi che insieme componevano il mondo e il sentimento dello scrittore scomparso. Nemmeno antologia (il testo teatrale la esclude) o riassunto quanto invece e nel senso più puro “deformazione”. Bisognava mantenere uno stile più che ubbidire ad una storia, concretizzare in gesti e movimenti teatrali e quindi visivi i sentimenti più esatti non dell'opera in oggetto (“Il Compagno”) ma dello scrittore in questione (Cesare Pavese). Atto di fede e di coraggio, evitare un propria personalità alternandola in modo particolare: cercando di avvicinarla al maestro primo che l'aveva formata. Non a caso, la scelta è caduta sul “Compagno” anche se in sostanza il filone narrativo a cui allacciarsi poteva essere benissimo quello di un qualsiasi romanzo o racconto o poesia di Cesare Pavese. Ma nel “Compagno” esisteva un personaggio “chiave”, “Pablo”. Personaggio necessarissimo perchè completamente estraneo come tipo di mentalità, come origini, come struttura all'artista che lo aveva immaginato. Era un personaggio senza troppi sospetti autobiografici. L'ideale per fare da riflesso alle altre vere evidenze pavesiane inconfondibili addirittura nel personaggio di Linda. Ma a parte questi motivi critici valeva nel mie caso l’ispirazione prima: riproporre un amore e un interesse. Amore per un mondo e un sentimento, interesse per una tematica e uno stile. Per questo anzitutto il modulo del “Compagno” è diventata la matrice di “Storia di Pablo”. Per amore, interesse e necessità. Insisto ora sul termine “amore”. Io ho intesa la storia di Pablo come una storia amorosa. In ogni suo movente. In Pavese questo era più sospeso, nemmeno pudibondo ma sostanzialmente inespresso poiché in letteratura questo era “un modo” e forse un traguardo. Le esigenze teatrali impedivano questo e bisognava confondere l'atto di fede con l'atto di coraggio. Ed è questo che ho inteso fare presumendo che non di confusione si tratti ma di diversa evoluzione. Quando Pavese pubblicò “Il Compagno” molti critici ebbero a criticare piuttosto duramente quest'opera. A distanza di tempo qualcuno ha voluto una rivalutazione intesa più a rispetto verso l'autore che verso l'opera. Io ho inteso l'uno e l'altro bisogno e alla soddisfazione di queste esigenze questa mia “Storia di Pablo” vuol fare da accompagnamento e non a caso il termine mi sembra così chiaro. Ho dovuto, e lo confesso, impedirmi un pudore ma è stato in definitiva un accettarlo. Rispettarlo comunque. Ma nulla di più: certo essendo il mio convincimento che se il seme creativo (sopratutto in arte) è profondo, infinite e diversissime possono essere le sue ramificazioni. Il seme di Pavese era profondo. E, ad intenderlo, fecondo.
SERGIO VELITTI