Caro Guasti,
Nell'anno 1915 - se non erro - in Torino, stagione d'autunno, tu fosti il primo a leggere questa commedia. Quindi la leggesti una Domenica, dies dominiculs, a Dina fra una recita e l'altra nel suo camerino all'Alfieri; iniziasti le prove in quell'autunno 1915 e si andò in scena nel Gennaio 1920. Non bisogna lasciar credere che con la tua abilità di prezioso direttore (a torto non apprezzata ed esaltata quanto merita) tu impieghi cinque anni per mettere in scena una commedia. E' necessario invece far sapere che in quei cinque anni “Le campane di San Lucio!” subì molte vicende: rappresentata a Napoli da Tina di Lorenzo, nonostante l'esecuzione, ebbe mediocre successo per vizio di conformazione. Amputata di un atto ebbe miglior fortuna ma poi giacque nel soffice sepolcro che ospita le commedie mal nate. Ogni volta che io ti incontravo tu mi parlavi sempre con una certa nostalgia del pretino di San Lucio e i tuoi discorsi in lingua povera volevano dire: ma non ti deve proprio riuscire a scrivere tre atti possibili intorno a quel soggetto? Dina, che dovrebbe chiamarsi il Galvani degli autori, se non fosse irriverenza paragonare gli autori a ranocchie morte, mi ripeteva spesso che Amerigo avrebbe fatto tanto volentieri quella parte... La commedia poi, per suo conto, dall'infecondo soggiorno ove giaceva mi mormorava sovente il primo verso del “Le pauvre diable” di Voltaire: “Quel parti prende? Ou suis-je et qui dois-je étre?” Conclusione ... nel Gennaio scorso, riveduta, corretta, ampliata di un atto andò in scena a Torino ove fu replicata oltre dodici sere; altrettante fu replicata a Milano, ovunque è stata dal pubblico accolta con buon successo. Non ha pretese la commediola, no, caro Amerigo, costituisce ancora uno di quei molti esperimenti che un autore deve compiere prima di tentare voli più alti, ma tre qualità a parer mio (un parere ... disinteressato!) la rendono meritevole di non giacere nel sepolcro: la squisitezza della vostra esecuzione che è un'opera d'arte molto superiore alla commedia; la umanità e la originalità della situazione del finale secondo; la buona malinconia che sotto un velo di tenue comicità avvolge i tre atti. Per tutti questi motivi “Le campane di San Lucio” dovrebbe essere dedicata a te; ma tu sei troppo buon cavaliere (anzi commendatore) e sei ancora di quei pochi che anche in treno cedono il proprio posto a una signora che sia in piedi nel corridoio... Ti saluto, caro Amerigo; rappresenta più che puoi “Le Campane di San Lucio!” così, almeno in quelle sere, tu e Dina vi ricorderete di me e fa sempre piacere essere ricordati spesso dagli amici. (I diritti d'autore non c'entrano). Se troveremo qualche critico arcigno, niente paura! Tutto quello che di spiacevole può essere scritto in un anno. lo affogheremo, d'estate, in un ricco paglioso del tuo nettare a Tresanti! all'indimenticabile Tresanti! Rammenti ancora la gita che facemmo con Giacomo Puccini quando ci accompagnasti a vedere la chiesetta di Santa Maria a Cellole che doveva essere riprodotta nella scena di Suor Angelica? Stasera su questo solitario monte dell' Appennino, mentre scende la notte salutata da cori di grilli e illuminata da bagliori di luna che fanno splendere il castagneto, i ricordi di quella gita rifioriscono in me con una fragranza di gelsomini: si può dire che Puccini si fosse deciso a musicare Suor Angelica dopo aver veduto, un giorno, la fotografia della chiesetta di Cellole; la chiesetta era rimasta per un anno in effigie sul pianoforte del nostro grande Maestro quasi protagonista dell'opera e buona ispiratrice; attorno a lei avevano a poco a poco cominciato a cinguettare le bianche monachelle... a lei dovevo le indimenticabili squisite emozioni spirituali di una collaborazione ambita che possono essere intese soltanto da chi le abbia provate... Vedendola mi sembrò una persona viva e amata! E in quel giorno per la prima volta a S. Gemignano gli affreschi del Gozzoli; la conversione di S. Agostino... udii la musica che liberano quelle pitture e che aleggia per le vie e attorno le torri del castello di dantesca severità. E poi l'ospitalità dei tuoi e poi, o Amerigo, quel pasticcio di maccheroni! Anche quello sprigionava una musica, amico mio; disgraziato chi non capisce certe musiche: la pasta di farina di purissimo grano appena tagliata esalava un profumo in cui era anche il soave mormorio di un campo di spighe d'oro accarezzato dalla brezza; le nere creste e i fagiuoli di gallettini di canto che lo riempivano, sul pedale del mormorio della pasta contrappuntavano i ben noti inni alle aurore... Tu dovrai forse molte altre volte ordinare alla tua cuoca quel pasticcio di maccheroni per me. Ma un'altra volta certo e sarà l'ultima: nel momento della estrema dipartita, io ne vorrò un pezzo abbondante per portarlo al mio venerato e compianto amico e fratello in gastronomia Iarro, appena lo avrò raggiunto nel terzo cerchio della piova! E passo allo scopo della presente: uno di questi giorni torno a Tresanti.
Ti abbraccio.
GIOVACCHINO FORZANO. Vizzaneta - appennino pistoiese - Settembre 1920.