Teatro alla Scala di Milano presenta:
La strada (1984)
Balletto dall'omonimo film di Federico Fellini su soggetto di Federico Fellini e Tullio Pinelli - Musica di Nino Rota
- Interpreti principali: Carla Fracci (Gelsomina) Mario Pistoni (Zampanò) Mariella Pavesi (La madre) Tiziano Mietto (Il matto) Bruna Radice - Edoardo Colacrai (Gli sposi)
- Maestro Concertatore: Michel Sasson
- Coreografia: Mario Pistoni
- Direttrice corpo di ballo: Rosella Hightower
- Scene e Costumi: Luciano Damiani
- Direttore allestimento: Giorgio Cristini
Link Wikipedia
- Nino Rota - Bozzetti dei costumi e delle scene
Programma Edizioni Teatro alla Scala (pagine 78)
- Il programma è condiviso con "Pagliacci"
- La strada (Paola Calvetti)
- Come si fa a dire... (Federico Fellini)
- Nel 1965 (Nino Rota)
- L'emozione che provai (Mario Pistoni)
- Bozzetti scene e costumi
Come si fa a dire...
Come si fa a dire come nasce l'idea di un film, quando nasce, da dove viene, gli itinerari spesso sconnessi o dissimulati che percorre? Sono passati molti anni da quando ho girato La strada e mi è un po' difficile ricordare. Un film quando è finito mi sembra che se ne vada per sempre da me portandosi via tutto, compreso i ricordi di come l'ho fatto, e perché. A volte è un dettaglio insignificante, minuscolo, a volte un motivo musicale che chissà dove pesca, dove risuona, a volte è un ricordo o un colore o uno sguardo, che riaffiora prepotentemente e senza nessuna ragione apparente, chissà da quali abissi, e di chi, poi. All'inizio de La strada c'era solo un sentimento confuso del film, una nota sospesa che mi procurava soltanto una indefinita malinconia, un senso di colpa diffuso come un'ombra, fatto di rimembranze e di presagi. Questo sentimento suggeriva con insistenza il viaggio di due creature che stanno insieme fatalmente, senza sapere perché. La storia nacque con molta facilità: i personaggi apparivano spontaneamente, se ne tiravano dietro altri, e il tono, il colore delle loro avventure era già preciso, come se il film fosse pronto da tempo e aspettasse soltanto di essere ritrovato. Una storia di personaggi randagi, per strade polverose e borghi antichi, un racconto picaresco di zingari e saltimbanchi. Così dunque mi apparve Gelsomina nelle vesti di un clown, e subito accanto a lei, per contrasto, un'ombra buia e massiccia, Zampanò. E naturalmente la strada, il circo con i suoi stracci colorati, la sua musica minacciosa e spacca cuore, quell’aria da fiaba feroce... Ho chiacchierato troppe volte del circo per avere l’impudenza di insistere ancora. Con Pinelli parlammo infervorati per tutto un pomeriggio ed era come se Gelsomina e Zampanò ci raccontassero la storia del loro vagabondaggio, dei loro incontri, la loro vita... Le campagne, i paesi, le vallate di quel viaggiare erano per me quelli dell'Appennino Tosco-Romagnolo. D'inverno, quando ero ragazzino, da quelle montagne color piombo, annunciati dalle strida di terrore dei maiali che dal fondo dei loro porcili li sentivano arrivare, scendere: mattatori di porci con i coltelli affilati appesi attorno alla pancia, come nei quadri di Brueghel. Debbo aver avuto per qualche tempo un taccuino dove segnavo tutto quello che mi sembrava potesse aver a che fare col film, appunti, annotazioni, stramberie, che forse assomigliavano a cose come queste: in un silenzio da miracolo nevica sul mare, composizioni indecifrabili delle nuvole, pietroni millenari sprofondati in un campo. Nella notte chiara canto di rosignolo che riempie il cielo e poi tace di colpo. I folletti del mezzogiorno di agosto che nelle campagne di Gambettola facevano dispetti a chi s'addormentava a bocca aperta sotto la querce. I primi appunti del film erano di questo tipo. Ma cosa volevano dire? Che film era? Anche il ricordo di mia nonna Francesca, sempre a Gambettola, deve aver avuto a che fare con La strada. Col suo fazzolettone nero che le fasciava la testa, il nasone a becco, gli occhi brillanti come catrame liquido, sembrava la compagna di Toro Seduto, teneva sempre un giunco tra le mani, con il quale faceva fare agli uomini presi a giornata per lavorare nei campi certi salti da cartone animato. La mattina presto in cucina si sentivano risatacce e un gran brusio, poi davanti a lei che appariva, quegli uomini violenti assumevano un atteggiamento di rispetto come in Chiesa. La nonna allora distribuiva il caffellatte e s'informava di tutti. Voleva sentire il fiato di Ciapalos per scoprire se aveva bevuto la grappa, e questi rideva, dava gomitate al vicino, per il pudore diventava un bambino. Anche con gli animali era straordinaria: indovinava le malattie, gli umori, la tristezza, le furberie; “In tre giorni arriva il garbein” annunciava con sicurezza infallibile, ed era vero. Il garbein è un vento in più che abbiamo in Romagna. Un vento capriccioso, caldo e freddo, assolutamente imprevedibile. Per tutti meno che per lei. Anche Gelsomina, pensavo, doveva avere questi umori, questi poteri. Se fossi ancora più spudorato di quanto sono, potrei indicare altri motivi, radici forse più profonde, che di certo hanno dato vita a questa fantasia: nostalgie, rimorsi, rimpianti, la (favola dell'innocenza tradita, la speranza di una vita limpida, fatta di fiduciosi rapporti, e l'impossibilità o il tradimento di tutto questo. Insomma tutto il confuso, oscuro sentimento di colpa nutrito, incrementato, amministrato con cura instancabile dal ricatto dell'educazione che abbiamo avuto. Credo che il film l'ho fatto perché mi sono innamorato di quella bambina-vecchina, un po' matta o un po' santa, di quell'arruffato, buffo, sgraziato e tenerissimo clown che si chiama Gelsomina, e che ancora oggi riesce a farmi ingobbire di malinconia quando sento il motivo della sua tromba.
FEDERICO FELLINI