La PLEXUS T organizzata da Lucio Ardenzi presenta:
Monsieur Ornifle (1983)
Di Jean Anouilh
- Interpreti: Alberto Lionello, Erica Blanc, Vittorio Congia, Nestor Garay, Angiolina Quinterno, Giorgio Crisafi, Maria N.Mosci, Barbara Scoppa, Edmondo Tieghi, Armando Cianchella, Giuseppe Baiocco, Stefania di Nicola (la fotografa), Carlo Mezzanotte (il pianista), Luigi Pistillli (la voce)
- Traduzione: Tullio Kezich
- Musica: Arturo Annecchino
- Scene e Costumi: Alberto Verso
- Regia: Luigi Squarzina
Link Wikipedia
- 1.Alberto Lionello - una scena -.Jean Anouilh
Programma di sala (pagine 24)
- La vita e le opere di Jean Anouilh
- Anouilh il mestiere del teatro
- Note di regia (Luigi Squarzina)
- Lionello Squarzina una coppia di successo
- Fotografie di Elena Bono
Forse non è stata affatto la speranza, ingenua in un letterato così scaltro, di arrampicarsi sulle spalle di Molière che ha spinto l'Anouilh di Ornofle a ripercorrere spiritosamente e tutt'altro che superficialmente il Don Giovanni, non solo, ma il Malato immaginario, il Misantropo, la Scuola delle mogli. Forse per trovarvi, dissimulata fra il pastiche e l'ironia e in mezzo all'apparato autodifensivo e mistificatorio, quella nota di sincerità senza la quale nessuna opera potrebbe sperare di attraversare impunemente il trentennio spietato che va da quegli Anni Cinquanta a questi Anni Ottanta, la commedia va ascoltata, al di là del divertimento e del fuoco d'artificio, con l'orecchio a certe malinconiche battute di Ornifle quando confessa di essersi reso conto di non essere “un genio” e di avere optato per le possibilità di un quasi illimitato “talento”. Forse, nel “poeta” diventato “il paroliere più pagato di Parigi” Anouilh non ci parla d'altro che di sé, lo sappia o no, e di quelli come lui. Se non posso essere Molière sarò Anouilh. Del resto, forse, solo così si comprende come non sia un arredo esteriore la collocazione di questo Don Giovanni (o anti Don Giovanni?) nel mondo della canzone - la canzone francese di stampo letterario, naturalmente, aprés Prévert e daprès Prévert, che ha sempre attribuito alle parole importanza uguale o maggiore che alla musica. C'è davvero da chiedersi se il letterario/Ornifle “conte di Saint Oignon”, disceso a “mantenuta di lusso” dell'ex gangster Machetu assurto a impresario che nei suoi “tre teatri” non vende più solo “chiappe” ma, obbedendo alla “moda”, anche “letteratura”, altri non sia, in trasparenza, che l'Anouilh di Antigone (accoppiato da Visconti nell'ottobre '45 al Sartre di A porte chiuse, e i due autori, non dimentichiamolo, ne uscirono alla pari; e li ritroviamo ancora vicini negli Anni Cinquanta quando Gassman riprende da Brasseur prima l'adattamento sartriano del Kean e poi, appunto, questo Ornifle); l'Anouilh conservatore pensoso e da ascoltare, che dentro di sé, consciamente o no, sente di stare diventando l'académicien piuttosto reazionario degli Anni Sessanta e Settanta, fornitore a getto continuo dei maggiori interpreti del boulevard: quel “fare tutto facile” che il prete definisce bonariamente “uno dei travestimenti più pericolosi del diavolo”. Se Ornifle non ha potuto e non poteva agire nella evoluzione di Anouilh come un esorcismo contro la tentazione della facilità, proprio per questo noi, forse, siamo autorizzati a leggerlo come una “confessione”. AI prete che gli chiede: “E la grande opera che tutti aspettiamo?” Ornifle replica: “La sto aspettando anch'io”; e se fra le Arianne, le Supo e le Nénette, le Marie-Peche e le Clorinde e le Margherite, e rifiutando il soccorso sorridente ma implacabile di Arianna, l'ultima giornata del grande seduttore della quarta Repubblica non si rivela che un seguito di fallimenti erotici o di abdicazioni o di velleità o di ricordi catalogati da altri, tal quale l'ultima del grande libertino del Siècie d'Or; forse il parallelo molieriano/mozartiano vuole costruire una metafora abbastanza amara dell’impotenza creativa, della carenza di “ispirazione” non compensata dalla facilità di improvvisazione, con il rifiuto della paternità (accettata solo per un attimo, in un gioco ambiguo) a immagine della incapacità di assumere qualunque responsabilità sia vero gli altri che verso se stesso. E se Ornifle “non crede proprio a niente” - neppure più, da figlio immorbosito del relativismo e del probabilismo, “che due e due… fanno quattro, e quattro e quattro… fanno otto” come affermava il figlio dello scientismo seicentesco - allora a noi, forse, non si chiede di credere fino in fondo a una intensità vera¬mente sofferta del suo cinismo, a una serietà della sua crudeltà, a una pro¬fondità della sua sfida alla trascen¬denza, bensì alla straordinaria capacità di Anouilh di rappresentare in registro “futile”, diminutivamente (la Supo: “Lei è il diavolo!”; Ornifle: “Non esageriamo, lei mi sopravvaluta”), certi vizi/virtù ben riconoscibili e certe autentiche crisi. Ornifle non “si paluda” che per poche battute col padre Dubaton in uno sproporzionato pari pascaliano alla rovescia, perché sa fin troppo bene che la sua scommessa esistenziale gli conviene contenerla nel buon gusto ironico di un “linguaggio da sala corse”. La paura del ridicolo, difesa e salvezza di Ornifle/ Anouilh, forse non è che la rinunzia di Anouilh/Ornifle a diventare “migliore” come pretenderebbero i suoi “critici” e le sue “femmine”, e la sanzione di una scorrevolezza senza paragoni nel teatro del suo tempo. Un nemico di Picasso diceva: “avec le talent on fait ce qu'on veut, avec le génie on fait ce qu'on peut”. Se di fronte agli asperimenti della nouvelle cuisine è tramontata da un pezzo la tradizione di chez Maxim, già dissacrata nel '55 dai vari Pilu e Machetu con al seguito le varie Clorinde, e ormai istituzionalizzata nelle voci di bilancio a piè di lista delle multinazionali, figuriamoci se l'elegante, sapiente teatro di Anouilh, vissuto accanto e dentro l'esistenzialismo e a ridosso dell'azzardo, non doveva essere scavalcato dalle letture politiche dei classici, dalla corporalità, dall’antitheatre. Ma questo “uomo di teatro” '55 che cominciava ammettendo: “sto invecchiando” per poi ringalluzzirsi e ghignare: “macchè vecchio”, non può essere una maschera dell'intellettuale che si riconosceva già allora capace solo di ringiovanimenti illusori e artificiosi ma alla fine aveva almeno il coraggio di mostrarsi senza pudori con le guance ritoccate dal belletto del vieux marcheur? Allora, forse, vale la pena di accettare questa proposta di un esercizio ad alto livello su tutto ciò che significa e implica la gloriosa tradizione francese del “teatro di seduzione”, dove nessun titolo di nobiltà o di fama, nessun carisma di personag¬gio, nessuna piattaforma di ricchezza mette l'eroe/conquistatore al riparo dalla crisi per la quale è maturo. Dopo il conte Cesare di Tramonto Alberto Lionello si misura adesso con un altro, diversissimo superuomo destinato alla sconfitta, ancora all'ombra di un mito (lì Edipo, indirettamente; qui, direttamente, Don Giovanni); e se stavolta ciò avviene entro la dichiarata volontà dell'autore di fare commedia è perché “soltanto il riso , fa dimenticare il pensiero della morte”: citazione da Pascal, o da Bataille con cui Anouilh sembra suggerirci la non facile chiave stilistica delle sue “pieces noires”. La stessa semiseria vena mitolo¬gizzante battezza Arianna la moglie (un nome, forse, alla Giraudoux?): nonostante l'abbia sposata e anche (l'unica) un po' amata, Ornifle non accetta di uscire con lei dal labirinto, preferisce continuare a combattere senza sosta contro il minotauro della libertà. Non ricava nulla neppure dall’avere assaggiato la committenza religiosa: ha scritto una cantata per Bernadette, improvvisa davanti a noi dei couplets natalizi per il prete consumista e aggiornato, e ne approfitta per dichiarare che si pente solo dei peccati che “non” ha commesso e che perciò maleodorano come “voglie mortificate”, mentre da parte loro quelli “commessi” sono “pagati in contanti” con il disgusto e la sazietà. Fuori dell'amore, di cui del resto “è avaro” e che somministra “col contagocce”, il Dio di Ornifle non dà requie all'uomo, il quale a sua volta, incapace di tragedia, lo disapprova, e lo provoca facendo il male per “divertirsi” e adottando, da aristocratico imborghesito, il Gaudent bene nati! dell'aspirante aristocratico Casanova. Questo gran daffare a vuoto, queste scontentezze, questo titanismo in sedicesimo, questo sadismo a spese della segretaria, sono forse, a un decennio di distanza dal libro di Camus, il contraltare ormai da commedia del Mythe de Sisif? Forse, insomma, una datazione e una localizzazione abbastanza precise possono e devono convivere con una astrazione abbastanza spinta, il gusto figurativo e di design della Parigi Anni Cinquanta con lo spazio/ tempo sospeso del mito; forse è perdonabile ad Anouilh di avere contaminato Molière con la canzone (uno dei piaceri maggiori nel preparare lo spettacolo: il riascolto di quel repertorio e di quelle voci. .. ), a noi di citare Mozart sulla tastiera di un piano-bar.
LUIGI SQUARZINA