Il Piccolo Teatro della città di Milano presenta:
Schweyk nella seconda guerra mondiale (1960)
Prologo, 8 quadri, 1 epilogo di Bertolt Brecht
- Interpreti principali: Tino Buazzelli, Franco Sportelli, Edmonda Aldini, Vincenzo De Toma, Enzo Tarascio, Gianfranco Mauri,Narcisa Bonati, Relda Ridoni, Mario Mariani, Cesare Polacco, Corrado Nardi, Maria Grazia Antonini
- Traduzione: Ettore Gaipa e Luigi Lunari
- Musiche: Hanns Eisler
- Scene e Costumi: Luciano Damiani
- Regia: Giorgio Strehler
Programma di sala (pagine 44)
- La stagione 1960/1961
- Da Hasek a Brecht (Luigi Lunari)
- Quadro degli avvenimenti
- Dal diario di Bertolt Brecht
- Le musiche di Eisler
- Il cast
- Il Piccolo Teatro dal 1947
Da Hasek a Brecht
Tra “Le avventure del buon soldato Schweyk” di Jaroslav Hasek e lo “Schweyk nella seconda guerra mondiale” di Bertolt Brecht i punti di contatto sono molti e vanno ben oltre la semplice figura del protagonista. Hasek iniziò la stesura del suo romanzo nel 1920, nel clima di un mondo che andava faticosamente ritrovando il suo assetto dopo il crollo dell'impero austroungarico, Brecht iniziò il suo dramma nel maggio-giugno del 1943, quando già la guerra aveva girato attorno alla boa di Stalingrado e la trista parentesi del nazifascismo si manifestava come ormai prossima alla chiusa. In ambedue le opere la guerra fa da sfondo alle vicende, ambedue utilizzano gli avvenimenti del periodo bellico ed il progressivo sfaldarsi delle vecchie strutture politiche per una satira contro la loro assurda inconsistenza; Hasek irridendo al pesante, decrepito, ottuso carrozzone degli Absburgo (anche se la morte prematura gli impedì nel 1923 di ripercorrerne fino in fondo la parabola discendente), Brecht puntando l'indice contro la oppressiva macchina nazista, così tragicamente ridicola anch'essa nella sua enorme forza materiale al servizio di tanto nulli umanità e ideali. Simile ancora, nelle due opere, il “modo” della satira e dell’accusa, che consisteva nell'opporre ai due grandi apparati statuali non la figura dell'eroe in grado di contrastare la forza fisica dell'oppressione con una pari forza di coerenza morale, come è pur consuetudine di un'abusata tradizione letteraria, ma una figura umana di tipo diametralmente opposto: il piccolo uomo insignificante, la nullità, che vanifica gli sforzi dell'oppressore proprio col non offrirgli nessuna coerenza da piegare. Nasce così la figura del buon soldato Schweyk, innocuo idiota patentato dallo sguardo limpido e bonario, dalla stordente logica di chi ha il cervello totalmente vuoto di schemi. Non è la parodia dell'eroe, ma la figura dell'anti-eroe: incapace di paura, ma non perchè superiore ad essa, bensì perché incapace di comprendere il pericolo; impassibile di mutamento. ma non perchè coerente ad un suo credo, bensì perchè perfetto nella sua geometrica idiozia; incapace di mentire, ma non per coscienti questioni d'onore, bensì perchè anche la menzogna implica uno sforzo intellettuale cui Schweyk non è in grado per lo più di sottomettersi. Identico è infine, in Hasek e in Brecht, il risultato dell’accostamento: a contatto con l'assoluta inconsistenza intellettuale (e dunque morale) di Schweyk, gli ingranaggi dell'apparato statuale girano a vuoto senza poter esercitare la minima presa su di lui. Avesse egli uno scheletro, fosse egli - in altre parole - un eroe, quegli ingranaggi lo stritolerebbero; ed allora la storia di Schweyk sarebbe al più la storia di un martire, e la fatica degli autori avrebbe sortito un preciso atto d'accusa destinato a suscitare nel lettore e nello spettatore un senso di riprovazione e di condanna contro l'oppressore. Così com'è, invece, l'atto d'accusa è solo mediato, e il senso di riprovazione o di condanna è solo un sottoprodotto di quello che è l'effetto vero dell'accostamento: il senso di ridicolo che nasce dalla manifesta impotenza dall’apparato di fronte alla disarmante acquiescenza di Schweyk. Ed il procedimento è doppiamente più efficace; non solo perchè l'arma del ridicolo colpisce meglio e più a fondo di ogni accusa, ma anche perchè è solo riconoscendo e dimostrando l'inefficacia della violenza, che se ne distrugge il mito. L'eroe che si lascia uccidere pur di non piegarsi obbedisce in fondo all'alternativa che l'oppressore gli propone: “piegarsi. o perire”, e ne testimonia in ultima analisi la pratica validità. L'anti•eroe Schweyk invece si piega, ma non obbedendo a quell’alternativa, nel qual caso sarebbe un opportunista o un vigliacco e finirebbe col confermarne la validità al pari dell'eroe che si fa uccidere; egli si piega “al di fuori” dell'alternativa e indipendentemente da essa: o precedendo l'ordine di piegarsi oppure semplicemente piegandosi di buon grado, ”consentendo” a piegarsi come si consente ad un invito, e non ad una minaccia o ad una costrizione, e come è vero che lo stato antidemocratico - sia esso il vecchio impero degli Absburgo o il Terzo Reich di Hitler - fonda la sua esistenza e la sua forza sulla costrizione e non sul consenso, ecco che Schweyk, rifiutandosi di lasciarsi costringere, priva lo stato oppressore della sua unica arma e del suo unico fondamento. Il lettore non ha che da percorrere le pagine del romanzo e del dramma, per notare quante volte ciò che provoca l'allarme dei rappresentanti del regime è proprio l’entisiastica adesione di Schweyk al regime stesso, sia che ancora immobilizzato da un attacco di reumatismi si precipiti in carrozzella ad arruolarsi (Hasek, capitolo settimo), sia che gridi di sua spontanea iniziativa “Heil Hitler! Vinceremo!” (Brecht, scena seconda). In Brecht poi il procedimento assume addirittura un carattere sistematico, e Schweyk perviene alla distruzione satirico-ironica del regime proprio esaltandolo ed approvandolo sistematicamente e portandone le premesse alle conclusioni estreme; come quando, scampato Hitler ad un attentato, lamenta come una mancanza di riguardo che sia stata usata una bomba da pochi soldi; oppure - ancora - quando elogia il razionamento come “ordine” sviluppando di conseguenza l’analogia: “Oggi non c'è niente che non sia razionato; ogni cucchiaio di minestrone è un tagliando della tessera che parte, e questo si chiama ordine; e io ho sentito dire che Hitler ha voluto mettere un ordine ancora più grande di quello che si sarebbe detto umanamente possibile. Dove la roba è tanta, ordine non ce n'è. E perché?.. : se io ho appena venduto un cane bassotto ecco che ho in tasca un sacco di soldi: corone, monete da dieci, da cinque, tutte mischiate insieme come càpita càpita. Ma se io sono al verde, allora succede che magari in tasca mi trovo solo una corona e una moneta da dieci, e allora come fa a esserci disordine? “ L'adesione di Schweyk al regime si risolve dunque sempre in un’opera di radicale distruzione, ed in questo si manifesta quello che Brecht definì “l’atteggiamento veramente non-positivo del popolo. in quanto - essendo esso stesso l'unico elemento positivo - non può dunque porsi come “positivo” nei riguardi di null’altro”.. In questo, ancora, “la sua indistruttibilità, che lo rende oggetto inesauribile di abuso, e al tempo stesso terreno fecondo per la liberazione “. Ma questo porta il discorso su un altro interessante aspetto della questione: quali sono cioè - viste finora le analogie - le differenze tra lo Schweyk di Hasek e lo Schweyk di Brecht? In particolare: in che cosa si sostanzia “la positività” del popolo di cui Schweyk è in questo senso espressione tipica? Qual'è il significato della liberazione di cui Schweyk potrebbe essere “fertile terreno”? Qual'è, in altre parole, l'ordinamento sociale che permetterebbe a Schweyk di essere e di sentirsi veramente libero? E qui cessa a mio avviso ogni possibile analogia, perchè lo Schweyk di Hasek è l'invenzione di uno spirito anarchico, lo Schweyk di Brecht è la costruzione di una mente socialista. Lo Schweyk di Hasek è l'individuo totalmente asociale, che si sentirà sempre oppresso - nella misura beninteso in cui egli può “sentirsi oppresso” - dall'ordine sociale, qualunque esso sia; non solo dunque quello dell'impero austroungarico. In questo si riflette del resto l'anarchismo stesso dello Hasek, sbeffeggiatore implacabile dei miti borghesi ed imperiali, ma incapace di far seguire all'opera di demolizione la fattiva aspirazione ad una diversa società; vero è che Hasek ebbe una sua presa di posizione ben precisa quando allo scoppio della rivoluzione d'ottobre si schierò apertamente con i bolscevici, ma vero è anche che di que¬sta crisi non v'è traccia conseguente nella sua vita successiva, in cui egli riprese - per le bettole e le osterie di Praga - la scioperata esistenza di sempre. Il romanzo stesso, del resto, non ammette altre interpretazioni. Alla fine della prima parte, intitolata “Nelle retrovie”, Hasek in un breve epilogo ne prometteva altre due: “Al fronte” e “In prigionia”, di cui scrisse poi solo quattro capitoli della prima. Anche Schweyk dunque - come Hasek stesso - sarebbe venuto a contatto con l'ordine socialista, e sebbene ciò sia ovviamente mero campo di congetture, non è a mio avviso pensabile che Schweyk potesse tenere nei riguardi del socialismo un atteggiamento diverso, più positivo e più remu¬nerante, da quello tenuto nei riguardi dell'ordinamento borghese. Questo avrebbe portato sì la vicenda ad un preciso punto d’arrivo, ma - a parte il totale snaturamento del carattere di Schweyk - la vicenda stessa è tale “che si può esaurire veramente - come scrisse Piscator - solo con la morte dell'eroe”, il che però non è ancora una soluzione ma solo la soppressione del problema. Per lo Schweyk di Hasek non vi è dunque costruzione sociale possibile; la sua “positività” si esaurisce al più nel vivere senza nuocere, la “liberazione” di cui egli sarebbe fertile terreno non può consistere che nell'affrancamento, non che da un principio d'ordine oppressivo, da ogni principio d'ordine pensabile. Lo stesso ideale trotzkiano della “società che si amministra da sé” altro non potrebbe essere, nella libera interpretazione dello Schweyk di Hasek, che una società che si rifiuta di amministrarsi. Lo Schweyk di Brecht si trova da questo punto di vista al polo opposto. L'efficacia distruttiva del suo particolare tipo di idiozia-saggezza si manifesta contro il sistema sociale che lo attornia in quanto oppressivo, non in quanto sistema. Egli ruba ad esempio il cane del collaborazionista Vojta, ma si preoccupa di fare in modo che la colpa non ricada sulla cameriera Anna che conduceva il cane al guinzaglio; qui dunque la “asocialità” non è in discriminata come in Hasek, ma è pronta a trasformarsi in una ben precisa solidarietà ogni qualvolta Schweyk venga a contatto con un essere umano nella sua identica condizione di oppresso. Di più: in nome di questa solidarietà egli giunge a compiere un atto che il pacifico anarchico di Hasek non avrebbe assolutamente compiuto: quando si ribella al Pastore militare che vuole derubare la vecchietta incontrata nella steppa, lo colpisce o forse lo uccide. Da un certo punto di vista il gesto non è coerente con il carattere di Schweyk, non solo perchè implica una manifestazione di volontà assolutamente inconsueta - per non dir anomalia - in lui, ma anche perchè con questo egli viene a negare la sua tipica (e distruttiva) politica di non-ribellione, e ad offrire al regime oppressore l'occasione e il pretesto per schiacciarlo. Ma appunto qui il suo atteggiamento di resistenza passiva si trasforma in una condotta di positiva attività; qui egli tocca veramente il fondo di ciò che è disposto a tollerare, e precisa con questo l’ordine che non può permettere venga turbato. Egli esige dunque un principio d'ordine, fosse anche solo quello di garantire a tutti, come alla vecchia o all'amico Baloun, il diritto di vivere e di mangiare. E in questo “tutti”, in questo senso di solidarietà attiva che non avrebbe sfiorato il primo Sehweyk, vi è il superamento dell'anarchia di Hasek nell'umanissimo socialismo di Brecht.
(Introduzione all'edizione in volume di ”Schweyk nella seconda guerra mondiale” presso Einaudi).
LUIGI LUNARI